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Il Muro del Rimpianto – Mindhunter, morte bianca della serie dal cuore nero

Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.

Mindhunter è stata una vera e propria deflagrazione all’interno del panorama delle serie tv di genere crime. Prima del suo arrivo su Netflix nel 2017 il genere crime investigativo aveva già conosciuto perle di rara bellezza: pensiamo a True Detective, che coniugava investigazione e filosofia esistenzialista. Ma, a parte rare eccezioni, il genere crime era rappresentato da serie tv con decine di stagioni all’attivo e basate su un format semplice: in ogni episodio c’era un caso da risolvere, spesso con dettagli e dinamiche al limite della credibilità, e la vita privata dei detective si intersecava in maniera indistricabile con la loro vita professionale.

Il serial killer, in serie tv come CSI, Criminal Minds e molte altre, è una figura mitologica, un disadattato pittoresco e con tratti di irrealtà: troppo distante da noi per essere percepito come una minaccia reale dallo spettatore, che assiste al ripetersi sempre uguale degli stessi schemi narrativi con distacco e quasi con divertimento. Per questo l’arrivo di Mindhunter ha sparigliato le carte, presentando una realtà molto diversa e mille volte più inquietante.

In Mindhunter l’assassino è lì fuori ma soprattutto, e questa è la differenza fondamentale con tutte le altre serie che l’hanno preceduta (persino True Detective), l’assassino è dentro di noi. Nella prima stagione della serie di David Fincher, uno che sa come creare inquietudine, si getta il terreno per quella che diventerà l’esperimento incompiuto più amaro del genere crime televisivo. La nascita delle scienze comportamentali e la creazione di quel sinistro termine, serial killer, vengono presentate come processi lunghi, spesso tortuosi e ricchi di imprevisti, di scartoffie e di lunghe e spesso improduttive sessioni di conversazione con i killer. Qualcosa di non sempre così entusiasmante (ma crudelmente realistico) come viene invece dipinto in film e serie, che mitizzano la figura del serial killer, rendendola quasi sovrannaturale: una divinità malvagia che lavora nell’ombra per gettare nel terrore la società.

L’assunto di base di Mindhunter, ciò che l’ha distinta da qualsiasi altra serie crime e che rende di conseguenza ancora più amara la sua incompiutezza, è che il male è dentro di noi: è la conseguenza di ciò che ci ha fatto la società, verso la quale riversiamo il nostro odio come un’onda senza fine. Oltre a ciò, Mindhunter ci dà la voyueristica possibilità di guardare in faccia e scrutare nel cuore nero degli assassini più efferati che l’America abbia partorito: il Figlio di Sam, Ed Kemper, Richard Speck, e naturalmente sua maestà Charles Manson. Chissà quante altre facce nerissime e cuori altrettanto oscuri avrebbe aggiunto alla sua lista, se non fosse stata stroncata sul nascere: a un passo dal diventare qualcosa di grande.

In realtà, qualcosa di grande Mindhunter ce lo lascia comunque: la promessa, in parte irrisolta, di assecondare le fantasie degli appassionati di criminologia e scienze comportamentali, guidandoli passo passo in una scala discendente verso l’inferno. Mindhunter è tatuata in profondità nell’epidermide di chi l’ha vista: impossibile vedere altre docuserie come le recenti Sulla scena del delitto: Il caso del Cecil Hotel, Night Stalker e Lo Squartatore senza pensare a ciò che abbiamo imparato da Mindhunter.

Pensate a una delle scene più apparentemente insignificanti eppure così cariche di simbolismo della serie. Wendy Carr, la consulente che Bill e Holden assoldano dall’università per aiutarli a scavare nella mente dei killer, e il gatto fantasma. La donna gli lascia da mangiare ogni giorno, perché sente miagolare al di là della finestra, nel buio. Il gatto non si manifesta se non quando lei se ne va, dopo avergli lasciato il cibo: le uniche prove della sua esistenza sono il fatto che la scatoletta di tonno, il giorno dopo, è pulita.

Non ci sarà mai un contatto tra Wendy e la bestiola, nessun momento di tenerezza o di ostilità: solo un muto scambio di informazioni, che terminerà improvvisamente e senza apparente motivo, lasciando la studiosa vagamente sconvolta. Il gatto che vive nell’ombra, il cui unico segno di vita è un silenzioso e chirurgico appagamento dei propri bisogni primari. Una metafora dei serial killer, che da Ted Bundy in poi, passando per quelli seriali come Dexter, hanno descritto l’esigenza di uccidere come “un bisogno implacabile”?

La personificazione, l’allegoria di quel “passeggero oscuro” che non si può vedere né nominare e che si manifesta unicamente attraverso sanguinose ed efferate manifestazioni di morte? In Mindhunter niente è lasciato al caso. E anche la descrizione del rapporto tra Holden Ford e la sua fidanzata, un personaggio femminile assolutamente inedito nel panorama seriale, è una potente metafora del logoramento a cui ti sottopone l’esposizione prolungata al male.

Debbie, lo dicevamo poco fa, è un personaggio femminile atipico: l’incarnazione delle conquiste nel campo dell’emancipazione femminile e degli anni Settanta. Non sorride mai (e in una scena molto forte spiega anche perché), non è accondiscendente, analizza ogni comportamento del partner con una freddezza chirurgica che non concede sconti, considera il suo rapporto con Holden un interessante studio sociologico più che una relazione amorosa. Sessualmente è aperta, disinibita, il contrario della donna riservata e pudica propagandato fino a una generazione prima.

Dà e toglie a Holden nella misura in cui lui dà e toglie qualcosa a lei: apparentemente si potrebbe pensare che sia lei la causa della fine della loro relazione (dopotutto, quasi lo tradisce e non manifesta il benché minimo interesse nel ricostruire il loro rapporto), ma analizzando a fondo la loro storia non è la sola a uscirne colpevole. L’entusiasmo iniziale di Holden nei confronti della loro relazione non viene smorzato dagli atteggiamenti freddi e analitici di lei: è il lavoro logorante di mediatore tra serial killer e studiosi a ridurre il profiler dell’FBI a un prosciugatore di umanità, congelando la passione e l’affetto della partner. Holden non se ne accorge, ma qualcosa si insinua nelle pieghe della loro relazione, qualcosa che lui ha accolto dentro di sé: e Debbie è troppo sveglia, troppo intelligente per non notarlo.

In un interessante documentario di Amazon sulla figura di Ted Bundy, in cui la sua ex fidanzata ripercorre i loro anni insieme, la tesi che viene proposta è che i serial killer uccidessero le giovani donne perché incarnavano l’opposto di ciò che per loro era considerato l’universo femminile. Le persone come Bundy, Richard Speck o Dennis Rader, non accettano che la donna sia emancipata, libera, che abbia potere su di loro. Ucciderle, stuprarle, profanare i loro cadaveri in maniera rituale e significativa (pensate a cosa fece Ed Kemper delle corde vocali della madre) ha lo scopo di esorcizzare il potere che loro intravedono nella figura femminile. Un potere che non si sanno spiegare, che temono più di ogni cosa al mondo e che li spinge a sfidare ogni regola e ogni legge: qualsiasi cosa pur di ridurre al silenzio quelle voci, spegnere quei sorrisi e cancellare quei corpi.

Provare anche solo per pochi istanti ciò che provano i serial killer, buchi neri di umanità, che attraggono e mai più restituiscono ciò che orbita troppo vicino e con troppo interesse, è un azzardo degno di un visionario o un folle. Holden Ford prova a giocare nello stesso campo di un serial killer, e il risultato è sconvolgente:

“Amico, una linea molto sottile ti separa da me!”

Richard Speck, uno che uccideva le donne “perché non era la loro cazzo di giornata”, riconosce in Holden qualcosa di oscuro, che il profiler non vuole accettare (e che sconterà con lo spaventoso attacco di panico di fronte a Ed Kemper sul finire della prima stagione), ma che è lì, perché lui l’ha lasciato entrare e depositarsi nella sua anima, abbassandosi al livello di un serial killer.

Si dice che sia impossibile conoscere a fondo qualcuno: Mindhunter ci insegna che ciò che potremmo vedere dietro la superficie potrebbe essere agghiacciante. Dietro alla facciata di fidanzato protettivo e vagamente sottomesso potrebbe nascondersi un assassino spietato e macabro, e potremmo riconoscerlo provando una inspiegabile nausea al vedere le sue lacrime. Il prezzo per stanare il male è accoglierlo dentro di sé? Se così fosse, il lavoro di Bill e Holden li condurrà inevitabilmente alla solitudine: un processo involutivo che ci dilania poter soltanto immaginare.

Oltre a ciò che Minhunter ci ha insegnato sui serial killer e sull’animo umano, ci mancheranno anche molti momenti d’azione, sia legati a figure storiche che propri della storia originale, che non troveranno mai una conclusione.

Il più grande rimpianto che un fan di Mindhunter possa avere è non veder compiuta, ma nemmeno iniziata, la grande caccia all’uomo che porterà alla cattura di Dennis Rader, il killer BTK. La sua presenza, silenziosa ma eloquente, all’inizio di ogni puntata ci ricorda che per 30 anni è stato lì fuori, pronto a colpire: è il sogno proibito di Holden Ford e Bill Tench, ma loro non lo prenderanno mai.

Ed è davvero un peccato, perché l’agghiacciante parabola umana e omicida del tecnico per gli antifurti che sterminava intere famiglie e aveva il pallino del sesso estremo è sintomatica di quel bisogno viscerale, quel passeggero oscuro di cui parlavamo sopra. La superbia di Dennis Rader lo spinge a scrivere direttamente alla polizia per vantarsi dei suoi crimini: avremmo semplicemente adorato vedere Bill, Holden e Wendy al lavoro per dipanare la personalità di un mostro che per 30 anni ha agito indisturbato, fino a pensare di essere completamente al sicuro.

Un altro grande rimpianto che ci lascia Mindhunter è quello di non vedere compiuto l’arco narrativo dei suoi protagonisti. Non capiremo se davvero Holden Ford ha in sé il seme della sociopatia o è semplicemente un ottimo segugio che si sta lasciando inebriare dall’odore del sangue. Non scopriremo gli orrendi retroscena del misterioso figlio di Bill Tench, e quali ripercussioni le sue azioni avranno sul capo del reparto di Scienze Comportamentali dell’FBI e sulla sua famiglia, ormai in completo disfacimento. Non vedremo compiuta la sete di conoscenza di Wendy Carr, la professoressa che abbandona una cattedra sicura in un ambiente protetto in cui poteva essere se stessa per inseguire la chimera di scoperchiare l’anima dei serial killer e provare a trovare un senso alla loro abiezione.

La breve vita di Mindhunter, la serie dal cuore nero stroncata da morte bianca, lascia un senso di incompiutezza, proprio come una vita recisa prima del tempo. Al momento è in uno stato di congelamento, né è cancellata definitivamente né c’è la possibilità di poter vedere una nuova stagione prossimamente. Forse, proprio come nei casi di scomparsa, è meglio sapere, anche se la notizia che potremmo avere è quanto di peggio si possa immaginare.

David Fincher ha detto chiaramente che non se la sente di continuare: la serie ha un costo, anche umano, troppo alto e un profitto troppo esiguo. Ma ci sono molti altri registi che potrebbero raccogliere la sua eredità e continuare la serie che negli anni, anche in virtù del suo destino di capolavoro incompiuto, è diventata un vero cult. Rimane sempre la speranza dei fan che il progetto non sia morto e che possa in qualche modo tornare, per portare a compimento una promessa, o meglio un patto di sangue: trascinarci nuovamente all’inferno.