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I Simpson – Time to say goodbye

“O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”

Correva l’anno 2008 quando Christopher Nolan, per bocca di Harvey Dent, consegnava ai posteri questo breve ma significativo precetto. Non è facile per nessuno capire quando arriva il momento di tirare il freno e farsi da parte. Ognuno ha il suo tempo, la fine prima o poi arriva per tutti, anche per i più grandi. È un triste destino che non risparmia cose o persone, uomini comuni o celebrità, leggende dello sport, del cinema o della Tv. Purtroppo tale mantra vale anche per I Simpson, che all’epoca dell’uscita de Il Cavaliere Oscuro erano già alla loro diciannovesima stagione. Già allora il coro di chi riteneva che fossero alla frutta era ben nutrito; adesso che di anni ne sono trascorsi altri dieci e che la Serie si accinge a concludere la sua ventinovesima stagione, anche i più strenui difensori hanno da tempo gettato la spugna.

E sì, tocca anche a chi vi scrive ammetterlo candidamente: fino a poco tempo ero un crociato di quest’ultimo schieramento. Per anni non ho voluto arrendermi all’evidenza che una cosa così importante e meravigliosa potesse aver imboccato un così inglorioso viale del tramonto. Sfido chiunque ormai, sia i fedelissimi della prima ora e sia semplici fruitori occasionali, a non ammettere che I Simpson di una volta, quelli che io e tanti altri abbiamo adorato alla follia, non esistono più.

Cosa hanno rappresentato I Simpson per me

Per quel che mi riguarda, rappresento il pensiero di uno dei tanti che devono letteralmente tutto ai Simpson. Sono stati cruciali nell’accrescere la mia forma mentis e parte della mia stessa identità puntata dopo puntata, replica dopo replica. Trovo che le prime stagioni siano vere e proprie opere d’arte, compendi inestimabili per la crescita e l’educazione di ogni bambino. I migliori episodi di quelle annate andrebbero mostrati nelle scuole per acuire la sensibilità dei ragazzi, il loro senso dell’umorismo e per far capire loro come va il mondo. Sono spaccati di epoche storiche ancora tremendamente attuali che insegnano a comprendere meglio la politica, la cura dell’ambiente, la vita stessa. Venti minuti scarsi di una vecchia puntata dei Simpson, sia pure la meno ispirata tra quelle che vanno dalla prima alla undicesima stagione, valgono qualsiasi altra produzione televisiva. Mio personalissimo giudizio personale.

Al di là dei gusti, è innegabile che I Simpson abbiano cambiato per sempre la storia del piccolo schermo.

Cos’hanno significato I Simpson per la televisione

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Nati dalla matita di Matt Groening, squattrinato fumettista di Life in Hell, e concepiti inizialmente come semplici sketch da meno di un minuto per il Tracey Ullman Show, Homer e soci non hanno impiegato molto a guadagnarsi uno show tutto loro. Nel 1989 il pubblico impazzì alla vista della prima famiglia disfunzionale della Tv, rappresentata con rara sagacia e schiettezza in un’inedita salsa color senape, geniale espediente voluto proprio per evitare di passare inosservati. Parliamo di anni in cui ad andare per la maggiore erano le sitcom familiari innocue ed edulcoranti, come i Walton o Genitori in blue jeans. La Bart-mania delle primissime stagioni spodestò dal trono dell’audience un mostro sacro come Bill Cosby, mettendo la parola fine su un modo ormai superato di fare televisione. Finanche l’allora Presidente degli Stati Uniti George Bush senior prese pubblicamente le distanze dal loro modo di essere, considerato sovversivo, irriverente e quindi pericoloso.

Grazie ai Simpson venne di fatto sdoganato per la prima volta il “politicamente scorretto”, tratto somatico comune a tutte le Serie (animate e non) odierne. South Park e I Griffin, Rick e Morty e Bojack Horseman; l’animazione per adulti dei giorni nostri si è evoluta studiando Groening, cercando a sua volta di sorprendere il pubblico  e spingendosi sempre più oltre i confini di ogni eccesso conosciuto. Seth MacFarlane ha ammesso che nello sviluppare le idee per le puntate de I Griffin, tante volte ha dovuto abbandonarne di ottime, solo perché  “questo l’hanno già fatto I Simpson”. In molti hanno provato a raccoglierne l’eredita, in pochi vi sono riusciti, ma le vette raggiunte nell’epoca d’oro simpsoniana rimangono ai più inesplorate.

Perché I Simpson non fanno più ridere? Rispondono gli autori

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Prendiamo la 8×04: Lo show di Grattachecca e Fighetto e Pucci. I capoccia di Canale 6, cercando di risollevare dalla piattezza di idee Grattachecca e Fichetto optano per l’inserimento di un nuovo personaggio, il cane Pucci. La mossa si rivela ben presto un fiasco, con fan in rivolta a chiedere la messa al bando della new entry, e quindi un ritorno alle origini. In un momento chiave dell’episodio, Lisa, con una battuta, ci fornisce la chiave di lettura degli autori riguardo le lamentele dei fan per il calo qualitativo che la Serie stava iniziando ad attraversare:

“Il fatto è che non c’è nulla di sbagliato nello show di Grattachecca e Fichetto. Funziona come sempre. Ma dopo tanti anni i personaggi ovviamente non possono avere lo stesso impatto di una volta.”

In poche parole gli autori volevano lanciare un messaggio: non è lo show ad essere peggiorato, è il pubblico ad essere cambiato. Ormai si è abituato ad Homer e ha fatto il callo alle dinamiche di una Serie ultra-decennale. Lo stesso Groening (al Los Angeles Daily News nel 2007) si espresse così sulla questione:

Continuo a sentir ripetere che lo show non è più bello come una volta ma la gente paragona sempre i nuovi episodi con i ricordi dei suoi episodi preferiti, quando il programma riusciva ancora a sorprenderli. Bisognerebbe avere una mentalità aperta, ma per certe persone è del tutto impossibile. La nostalgia obnubila la mente.”

Ora, è normale che manchi l’effetto sorpresa e il senso della novità dopo tutto questo tempo, ma questa scappatoia appare deboluccia e non può bastare a giustificare la piega presa soprattutto nelle ultime stagioni. Proprio l’avvicendarsi negli anni di sceneggiatori meno capaci può rappresentare la madre di tutti i mali in cui versa lo show.

Il Dream Team

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Se è vero che Matt Groening fu colui che creò e battezzò Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie, non si può assolutamente dire che il successo della Serie sia stato tutta farina del suo sacco. Tutt’altro. I principali meriti di tutte le storie delle migliori puntate de I Simpson sono da attribuire ai signori ritratti foto.

La sala di sceneggiatura dei Simpson è ormai passata alla leggenda come una delle oasi di massima creatività della storia della televisione. Colui che riuscì in soli quattro anni ad assemblare e a fornire le linee guida a questo cosiddetto Dream Team della scrittura risponde al nome di Sam Simon. Scomparso nel marzo 2015, per un carcinoma del colon-retto, fu l’uomo che il produttore James L. Brooks scelse di affiancare a Groening nello sviluppo della Serie. Fu così che nacque la santissima trinità che compare alla fine della sigla di ogni episodio.

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Sam “Sayonara” Simon

Sam Simon era la vera mente creativa dello show, tanto che potremmo considerarlo come uno dei primi veri e propri showrunner moderni. Da molti è considerato come l’artefice principale dei Simpson per come li conosciamo. Fu lui a definire e costruire la personalità di personaggi come Burns, Krusty o Winchester. Se Groening piantò il seme, fu Simon a coltivare poco a poco quel che in seguito sbocciò ne I Simpson. Al termine della quarta stagione abbandonò la Serie (da qui sayonara) per le classiche “divergenze creative” (ed economiche) proprio con il papà di Homer.

Considerata una persona dal carattere difficile, il più grande merito di Simon fu quello di allestire tutto da solo il celebre Dream Team di sceneggiatori. Lo staff originario comprendeva: Simon stesso, Al Jean, Mike Reiss, Jace Richdale, Jon Vitti, George Meyer, John Swartzwelder, Jay Kogen, Wallace Wolodarsky, Jeff Martin e Matt Groening (in un certo modo). Molti sono convinti che Matt sia l’unico  deus ex machina dietro Homer e l’intero show; l’ideatore di tutte le stagioni e dell’universo simpsoniano. Ovviamente non è così.

Le migliori gag e  le migliori puntate sono il frutto del lavoro di questi eccezionali comici e narratori. Il resto è solo mera mitologia buona per chi ama le storie “alla Steve Jobs”.

Conan O’Brien si espresse così sul suo fiorente periodo nella sala di sceneggiatura:

“Fu come se il Dream Team olimpico con Larry Bird e Magic Johnson mi avesse chiamato per dirmi: «Vuoi venire a giocare a pallacanestro con noi?»”

Simon non riusciva a sopportare che tutti i riflettori fossero per Groening. Sapeva di essere la vera mente dietro il successo planetario della famiglia gialla, ma oltre a lui erano in pochi a conoscere la verità. Il suo prematuro addio fu un colpo durissimo per la Serie.

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L’era Scully e l’inizio del declino

Inizialmente, gli showrunner che si alternarono dopo l’addio di Simon se la cavarono più che egregiamente. Seguirono tutti la via tracciata e il lavoro iniziato dal geniale capo sceneggiatore, che fu portato avanti con successo di pubblico e critica. Fu a cominciare dalla nona stagione con l’arrivo di Mike Scully che, secondo gli esperti, la Serie cominciò la sua parabola discendente. Fino all’undicesima stagione il livello si mantenne comunque mediamente elevato.  Il colpo di grazia avvenne con il cambio della guardia al termine della stessa. L’era di Al Jean segnò lo spartiacque universalmente riconosciuto dai simpsonologi come “Era Glaciale” dei Simpson. Gli ascolti calarono drasticamente a partire dalla fine del 2000. Fu la fine dell’irripetibile sfavillio creativo iniziato nel 1991 da Sam Simon, visto che della formazione iniziale del Dream Team era rimasto poco e nulla.

Il presente

Da quel momento si sono alternate stagioni su stagioni con puntate di livello sempre più infimo, gag sempre meno divertenti ed evoluzioni dei personaggi a tratti sconcertanti. Il nostro amato Homer, nato incendiario e divenuto ormai pompiere con licenza, viene mortificato e ridotto ad essere una macchietta, veicolo di gag estemporanee e fini a se stesse che predominano sulla storia e non più viceversa, come avviene da sempre ne I Griffin. La sensazione è che, superato il muro dei 600 episodi, gli sceneggiatori attuali abbiano ormai utilizzato ogni trama possibile e immaginabile. Ancora una volta gli autori  hanno voluto comunicare al pubblico questa difficoltà già nel finale di stagione della tredicesima stagione. Attraverso un monologo di Homer in cui elenca tutti, o quasi, i lavori da lui svolti fino ad allora:

 “Sai, ho fatto un sacco di mestieri: boxeur, mascotte, astronauta, imitazione di Krusty, protettore dei bambini, camionista, hippie, spazzaneve, critico alimentare, artista di concetto, venditore di grasso, sindaco, guardia del corpo del sindaco, manager di una cantante country western, commissario all’igiene pubblica, scalatore, scenditore, contadino, inventore, Smithers, Pucci, assistente di celebrità, operaio nucleare, scrittore per biscotti della fortuna, Barone Birra, commesso al Jet Market, omofobo e missionario, ma essere protettore di Springfield è il più appagante di tutti.”

Nelle ultime stagioni, le guest star celebri sono diventate un elemento ricorrente di ciascun episodio, con conseguenti trame realizzate attorno a tali star, cosa che un tempo non accadeva mai così marcatamente. Emblematica in questo senso, la puntata dedicata a Lady Gaga, forse il punto più basso raggiunto nell’ormai trentennale storia dello show.

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La forza di staccare la spina

Alla luce di questa sdoganata impossibilità di stare al passo con i tempi, persi definitivamente smalto e brillantezza dei tempi migliori, proseguire con questo accanimento terapeutico appare come un’inutile crudeltà verso noi fan. Forse un’ipotetica e improbabile reunion del Dream Team di sceneggiatori servirebbe a riportare lo show ai fasti della sua epoca d’oro. L’appena sufficiente film del 2007 ne è la prova. La stesura del copione iniziò nel 2003 con un Dream Team 2.0  messo insieme da Brooks in persona. Tra questi, le vecchie conoscenze John Swartzwelder, George Meyer, Al Jean, Mike Reiss, Jon Vitti, Ian Maxtone-Graham, David Mirkin, Mike Scully e Matt Selman. Il risultato, purtroppo, lo conosciamo bene. Anche con i pezzi grossi dei Simpson nella sala delle sceneggiature e con più di quattro anni a loro disposizione, non riuscirono neppure ad avvicinarsi alla genialità che avevano raggiunto quasi vent’anni prima.

Da fan della prima ora e da cultore praticante del citazionismo simpsoniano come stile di vita, ad oggi non vedo altra soluzione che non sia quella di “staccare la spina” a un paziente che da tempo non risponde più alle cure e non dà più segni di vita. Per quanto sia doloroso, per quanto sia dura accettarlo, la fine arriva per tutti. Ce ne faremo una ragione, magari con un commosso addio. Perché ora come ora spiace dirlo, ma Larry Flint ha ragione, fate schifo!

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