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Heartstopper: la dolce brutalità dell’adolescenza

Al cinema e in televisione si tende spesso a voler vedere sempre qualcosa di nuovo. Un prodotto innovativo, che tratti di tematiche in modo diverso. Come se non avessimo più la capacità di volere qualcosa di confortante, qualcosa che ci faccia sentire a casa. Soprattutto quando si parla di storie d’amore: sembra che i drammi adolescenziali di natura sentimentale (qui potete trovarne 10 tra i peggiori presenti su Netflix) tendano a raccontare sempre le stesse cose e in maniera simile. E se Heartstopper, nuovo gioiellino britannico di Netflix, per certi versi percorre una strada già molto trafficata, per altri compie un grande balzo nel vuoto. E al suolo atterra tranquillamente, con l’eleganza che lo contraddistingue.

Tratta dall’omonima serie di romanzi a fumetti di Alice Oseman e uscita su Netflix a fine aprile di quest’anno, Heartstopper sembra apparentemente non prendersi troppi rischi e porta in scena una tipologia di racconto tra i più comuni che esistano: una storia d’amore durante gli anni del liceo. E se dobbiamo proprio parlare di sovra rappresentazione, gli anni di scuola sono stati teatro nel corso degli anni di dieci, cento, mille produzioni di genere diverso. Anche la storia in sé e per sé non sembra avere niente di nuovo: Nick Nelson e Charlie Spring frequentano entrambi lo stesso collegio in Inghilterra ma non potrebbero essere più diversi. Nick è il classico ragazzo popolare: gioca a rugby, è pieno di amici, sembra emanare sicurezza da tutti i pori. Charlie, al contrario, è timido, insicuro, schivo e di amici ne ha pochi (ma buoni). Due poli opposti che, come calamite, si attraggono e finiscono per dare vita ad una profonda amicizia e, successivamente, a qualcosa di più.

Tutto, nella serie, grida la parola adolescenza. La scuola che entrambi i ragazzi frequentano è molto di più di un luogo fisico: diventa metafora di un piccolo ecosistema a parte diviso da una linea di demarcazione tra chi ha e chi non ha, chi è dentro e chi è fuori. Ed è qui che troviamo il primo punto forte di Heartstopper: un po’ come sono riuscite a fare altre serie tv (come Euphoria) è capace di raccontare quello strambo e complesso periodo della nostra vita senza banalizzarlo. Le difficoltà di accettarsi e di sentirsi accettato, il costante paragone che si fa nei confronti degli altri, la confusione e le vertigini del primo amore. Le linee narrative sono quelle già viste, è vero, ma è proprio per questo che la serie si differenzia: Il focus non è posto su cosa si racconta, ma su come lo si fa. Perché la serie è caratterizzata da una dolcezza e purezza nel modo di raccontare la vicenda che si vede ben poco nel panorama seriale.

I personaggi, soprattutto quelli “di contorno” (che qua dentro sono secondari in una maniera del tutto diversa) sono divertenti, sfaccettati, umani. La coppia formata da Darcy e Tara è uno dei punti forti dello show: le difficoltà di quest’ultima nell’affrontare non la propria omosessualità, quanto i pregiudizi e la sessualizzazione (soprattutto maschile) fatta nei confronti di una donna lesbica vengono affrontate in maniera genuina e profonda, pur rimanendo sempre abbastanza leggera. I genitori, in Heartstopper, sono relegati a figure di sfondo che quasi non compaiono; e nonostante il personaggio interpretato da Olivia Colman riesca con due battute a far un lavoro egregio, la serie ci ricorda ancora una volta quanto durante gli anni dell’adolescenza ci sentiamo soli, separati dai familiari da una barriera che sembra indistruttibile. Nick e Charlie, d’altro canto, bucano lo schermo ogni volta che compaiono. Il giovanissimo (e bravo) Joe Locke fa un bel lavoro nel raccontarci un ragazzo insicuro e al tempo stesso coraggioso, che più di tutti lotta contro se stesso. Un ragazzo con un cuore gigante, che pensa di meritare l’amore di ben pochi e che, come l’omonimo del libro “Noi Siamo Infinito”, tende a confondersi con il muro dietro di lui. A fargli da spalla c’è Kit Connor, che riesce con due battute ogni volta a distruggerci, ricordandoci quanto è facile sentirsi persi da piccoli e quanto faticosamente lottiamo per sentirci parte di qualcosa.

Nick e Charlie ci entrano dentro in punta di piedi mettendo radici e, con gentilezza, ci ricordano che tra due punti non c’è solo una linea retta, ma un continuo volersi e rincorrersi, spesso senza toccarsi mai.

Heartstopper ha il grande pregio di riuscire a farci capire tutto pur dicendo molto poco e riesce ad insegnarci (perché è sempre bene farlo) che nessuno, al di la di te stesso, dovrebbe definire chi sei. Le pecche, come quasi in ogni prodotto, sono presenti, non possiamo negarlo: è sempre un terno al lotto parlare di rappresentazione della comunità LGBTQ+ e in Heartstopper gli stereotipi, se vogliamo trovarli, ci sono. Ma il punto del nostro articolo, e della serie stessa, non è questo: ci troviamo davanti una storia d’amore bella nella sua naturalezza, comune come dovrebbe essere.

Esiste un bellissimo sostantivo in inglese, ache, che descrive quel dolore che ti prende il cuore che non è proprio sofferenza, ma qualcosa di un po’ più dolce. Questo fa Heartstopper, nelle sue imperfezioni: ci ricorda cosa vuol dire essere amati.

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