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Non ho mai visto una serie così elegante come Hannibal

Elegance is more important than suffering. That’s his design.

Will Graham in Hannibal.

L’eleganza è tutto in un prodotto come Hannibal. La si può trovare dove non ce la si aspetta. La si trova dove non la si vuole. Eppure c’è, sempre. Dall’abbigliamento sempre impeccabile del dottor Lecter sino alla maniacale predisposizione delle pietanze su una ricca tavola, dal creativo modo in cui un serial killer lascia il cadavere della sua ultima vittima fino alle perfette inquadrature ossequiose della simmetria degli spazi in cui i personaggi si muovono. È difficile trovare una serie che più di Hannibal interpreti in tal modo, a tratti barocco, il concetto di estetica. La domanda a cui vogliamo rispondere è: perché? Cosa ci dice, in fondo, l’elegante estetica della serie tratta dai romanzi di Thomas Harris?

Partiamo da un dettaglio: l’importanza dedicata ai cosiddetti close-up shots. Non è difficile notare quanta importanza sia data alle inquadrature che si fossilizzano su un oggetto in particolare, con una tecnica di zoom talmente intensa da non permettere allo spettatore di comprendere subito quale sia l’oggetto stesso: spesso, infatti, è addirittura un dettaglio dell’oggetto a essere l’iniziale protagonista della scena. Si pensi a tutte le scene in cui un personaggio versa un liquido (spesso vino o tè) in un bicchiere o in una tazza: l’elemento ulteriormente caratterizzante, in questi casi, è il rallenty. Gli occhi dell’osservatore vengono immersi in questo marasma di liquidi, e tale sensazione si amplifica quando oggetto delle scene rallentate sono quelle di spargimento di sangue: che siano reali o che siano (molto più frequentemente) oniriche, l’indugiare sul sangue che scorre, sul sangue che schizza, sul sangue che imbratta è uno dei temi di Hannibal e uno dei momenti in cui, tuttavia, non viene sprigionato solo l’orrore.

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Questa ricerca della perfezione estetica ha, indubbiamente, un suo fondamento nell’utilizzo dell’orrore e dello sconvolgimento visivo. Sembra però, almeno agli occhi di chi scrive, che l’utilizzo dell’orrore (e in particolare dello splatter e del gore) abbia subito delle modifiche nel ruolo che il creatore Bryan Fuller e il direttore della fotografia James Hawkinson gli hanno assegnato nella stagione d’esordio prima e nelle due successive poi. Se infatti nel corso della prima stagione l’orrore appare come una celebrazione di se stesso, una spettacolarizzazione grottesca e assurda, un veicolo per mostrare la follia dei diversi killer oggetto di indagini nelle diverse puntate, a partire dalla seconda stagione esso assume un ruolo più nobile:

in concomitanza con una maggiore orizzontalizzazione degli sviluppi della trama – e in particolare della maggiore centralità assunta dal rapporto tra i due protagonisti Will e Hannibal – l’orrore sembra assumere una funzione mirata a visualizzare il folle percorso dialettico instaurato tra il profiler e lo psichiatra.

Si può dire, in altri termini, che lo splatter dalla seconda stagione in poi sia funzionale e strumentale a raccontare le orribili dinamiche interne al disturbante rapporto tra i due personaggi principali. Più Will perde il controllo, maggiori saranno le scene oniriche connotate da estrema violenza. Più Hannibal si avvicina a Will più gli omicidi da lui commessi lasciano dei messaggi macabri per il suo amico-nemico.

Non è solo lo splatter, tuttavia, il veicolo dell’orrore in Hannibal. C’è un altro tipo di orrore più subdolo, più mascherato ma, proprio per questa ragione, più perturbante. Stiamo ovviamente parlando delle scene culinarie. La mostruosità del bello estetico raggiunge in quelle inquadrature il massimo della sua realizzazione: sembra che il concetto di gusto, infatti, sia trainante e centrale rispetto a qualsiasi altro nella serie. Non solo le scene in cui il dottor Lecter cucina sono al contempo bellissime per il suo amore e dedizione alla preparazione degli ingredienti e disturbanti perché la portata principale è sempre rappresentata dai resti di un essere umano, ma la presentazione stessa dei piatti, tipica delle cucine stellate, non può che indurre nello spettatore una strana sensazione contraddittoria: da un lato non si può fare a meno di notare la bellezza di quelle pietanze, dall’altro è impossibile non rimanere disgustati da ciò che effettivamente sta accadendo. Il bello, quindi, è solo una maschera: tutte le scene in cui sono coinvolti alimenti (cucinati o meno) contengono continui richiami al concetto di morte. Ossa in vista, teste di agnelli o maiali portate a tavola come decorazione, sapiente utilizzo di colori tetri che rendono alcune scene dai contorni sfumati (si pensi in particolare alla resa visiva della spesa a Firenze compiuta dalla dottoressa Bedelia Du Morier nell’enoteca tappezzata da teste di cinghiali e prodotti essiccati).

Il gusto di Hannibal, tuttavia, non è solo quello legato al cannibalismo. La sua altra vera passione sembra in realtà essere la ricerca e l’enfatizzazione del Male negli altri, cosa che nel suo rapporto con Will si sostanzia nel volerlo trasformare in uno psicopatico. Si potrebbe dire, considerando il finale della serie, che Hannibal sia riuscito nel suo intento, ma servono alcune precisazioni che passano ancora dal ruolo dell’eleganza dell’estetica.

Ripercorriamo una scena simbolo dell’intera narrativa di Hannibal Lecter per comprendere il peso dell’estetica in questa narrazione. Siamo nella seconda metà dell’ultima stagione: il dottor Lecter si è fatto catturare ed è rinchiuso nell’ospedale psichiatrico mentre è a piede libero il nuovo e tremendo assassino seriale che non dà tregua all’FBI.

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Il Grande Drago Rosso, infatti, miete le sue vittime senza sosta e, apparentemente, senza criterio, pertanto la situazione è talmente disperata che Jack Crawford si vede costretto a richiamare Will, ormai ritiratosi a vita privata. La scena dell’analisi della scena del crimine a Buffalo è stata rappresentata in ogni trasposizione cinematografica e televisiva del libro Red Dragon eppure quella della serie riesce a sintetizzare perfettamente il suo messaggio e a distinguersi da tutte le altre.

Will, nella sua tipica visione in cui si immedesima nel killer per ricostruire la dinamica dell’omicidio, è qui circondato dagli schizzi di sangue che colorano le pareti, schizzi dai quali partono innumerevoli fili rossi che tratteggiano la direzione degli stessi, creando un effetto ottico in cui Will sembra sospeso quasi in volo nella scena, e parti dei fili assumono la forma di ali dietro la sua schiena (di un angelo o del Drago?).

La trasposizione dei dipinti di William Blake assume, nella seconda parte della terza stagione, un ruolo fondamentale e soprattutto fedele alle opere originarie. È l’apice di quell’indagine sul sacro e sul profano alla quale Hannibal non ha mai rinunciato. Ma perché coinvolgere la religione? Si pensi agli innumerevoli mosaici, tratti da opere realmente esistenti e modificate o mescolate con altre opere ancora, per un risultato finale che è la celebrazione dell’arte ma sempre viziata da quel gusto macabro di cui Hannibal non riesce a fare a meno. È lui il vero appassionato di religione: Will viene coinvolto da Lecter in questa narrazione, ma la sua è una visione molto più terrena (la pesca, la vita da boscaiolo). Hannibal si considera Dio e non è dunque strana la sua tendenza a cercare significati religiosi nelle cose che fa o nell’infinito confronto dialettico con Will.

Alla luce del lungo, estenuante, visivamente incredibile e disturbante dialogo che è intercorso fra i due protagonisti per tutte e tre le stagioni, la scena finale sembra quasi un pezzo fuori dal puzzle. Così non è. La distruzione del Drago, con copioso utilizzo di rallenty, close-up shots e centralità del sangue è l’ultima danza di seduzione e corteggiamento tra Hannibal e Will, in un frenetico tripudio di violenza che si sostituisce al fiume di parole lasciato scorrere nelle puntate precedenti. Il suicidio di entrambi, quindi, è l’ultima celebrazione estetica di un’eleganza che non ha mai smesso di permeare la narrazione, come culmine di una follia dialettica perpetrata tra questi due straordinari personaggi.

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