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È una grande cosa essere l’unico

È una grande cosa essere… l’unico.

Jung era ormai vicino alla rottura con Freud. Bastò poco altro perché le loro vite si separassero definitivamente.
Ma quella frase colpì Freud nel profondo. Era la risposta ad una domanda che si era posto per anni: quanto avanti ci si può spingere nell’insegnamento?
Evidentemente il tempo della formazione era finito. Jung non era più disposto a sentirsi ospite in una casa che ormai era anche la sua, aveva le chiavi di una conoscenza più grande di qualsiasi insegnamento, era pronto ad eguagliare Freud e andare addirittura oltre.

In un modo o nell’altro ci si riscopre sempre innamorati dei propri allievi. Si presta una parte di se stessi sperando di poter vivere un po’ anche in loro.

Hannibal entra nella vita di Will come una presenza esterna, come una voce lontana che pian piano diventa pensiero. Sono parole non dette che aggiungono caos a ciò che già appare confuso. Sono questi i primi versi di un prologo difficile da decifrare, un inizio che ha la stessa intensità della poesia che sta cercando di introdurre.
La punta della penna calca il foglio soltanto quando Will chiude gli occhi, solo dopo aver abbandonato se stesso nella realtà possiamo vedere come la scrittura diventa più scorrevole e naturale. È la sua poesia che comincia a prendere forma. Spazio dopo spazio, scena dopo scena.
Da scrittore diventa autore, soggetto dell’opera che controlla un passato estraneo che ormai è suo.
Non rimane quasi più nulla della persona che ha chiuso gli occhi, l’empatia verso il male invade ogni cellula del suo essere, si espande e distrugge ogni volta un nuovo dettaglio del bene. Will uccide e uccide ancora, mentre l’innocenza trema.
È aprendo gli occhi, tornando nel presente della realtà con una nuova, terribile consapevolezza, che la punta della penna si stacca finalmente dal foglio. Questa è la fine di un altro capolavoro, un’inedita maledizione che si aggiunge al macabro che cresce sempre più nella sua mente.

Questo, è il suo piano.

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È nella sofferenza dei suoi occhi che tutto questo male è contenuto. Nello sguardo di un uomo che vede in Hannibal una speranza di redenzione. Lo incontra nella salvezza di Abigail, nel suo aiuto nello sfidare la morte. Per la prima volta una vita era stata salvata, come mai era accaduto prima, era riuscito a non concludere l’ennesima, dannata poesia.

Da allora tutto cominciava a cambiare. Forse era possibile essere felici di nuovo, con Hannibal tutto poteva ancora accadere. Will però, ne aveva viste e vissute troppe, non rimaneva quasi più nulla di lui, se non uno scrittore forse troppo bravo nel comporre opere che lui odiava, dal primo all’ultimo verso. Non sapeva più distinguere la sua innocenza dalla crudeltà. Dalla rassegnazione di vite non volute nasce il loro rapporto. Sintomo di quiete prima di una tempesta e del caos che lentamente comincia a trasformarsi in deviazione.

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La stessa deviazione oggetto di indagine di Freud e Jung.

Uno maestro dell’altro. Attratti dal male come condizione parallela alla normalità, seguono la curva che si distanzia dalla norma riconoscendola e studiandola. Come Freud, così anche Hannibal forma il suo allievo nel vedere le cose in una particolare prospettiva, plasma Will, lo ricostruisce e gli dà importanza.
Nonostante siano due personalità molto distanti, Freud, in maniera molto simile ad Hannibal, si dimostra legato in modo indissolubile al suo allievo. Tanto da svenire quando comincia a capire quanto Jung si stia allontanando da lui.
Sono due rapporti costruiti sulla profondità umana, tenuti insieme da due figure concordi eppure emergenti.

È veramente una grande cosa essere l’unico. Lo dimostra lo stesso Hannibal nella puntata finale della seconda stagione, quando è la sua individualità ad emergere. Lo conferma Freud, che riconosce nelle parole di Jung la sua volontà di allontanamento. Entrambi delusi dalla persona a cui avevano dato tutto, persino se stessi. In una forma più alta di confronto e compromesso tra questi due rapporti, la figura all’inizio centrale ne esce sempre sola, più egocentrica che mai. Gli allievi invece vanno oltre l’insegnamento ricevuto, hanno dalla loro la capacità di capire la condizione umana in tutto e per tutto, senza schemi predefiniti o giochi di equilibrio. Tradiscono le aspettative e crescono al di là del maestro.

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Eppure non si ha mai lo stesso risultato. Abbiamo la possibilità di analizzare la riuscita di due condizioni, iniziate allo stesso modo ma finite in maniera completamente diversa. Non è rimasto nulla se non tristezza e malessere nel rapporto tra Freud e Jung, l’allontanamento è stato definitivo. È la rassegnazione a se stessi e alla pace dei sensi che invece abbiamo notato tra Hannibal e Will, una felicità raggiunta con l’accettazione di ciò che si evitava da troppo tempo.

Forse, per essere felici bisogna veramente abbandonare l’unicità.
E forse Hannibal e Will l’avevano già intuito:

Hannibal: Nel momento in cui gli altri uomini temono l’isolamento, il suo le è diventato comprensibile. È solo perché è unico.
Will: Io sono solo come lei.

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