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West Side Story – La Recensione: Spielberg si nota, ma forse non basta

L’ultima opera cinematografica di Steven Spielberg è sbarcata sulla piattaforma Disney +, che anche stavolta si dimostra la più veloce ad accaparrarsi titoli d’autore. West Side Story è un musical non originale che ha creato attorno a sé un divario immenso di pareri; da una parte chi l’ha osannato pronunciando “Spielberg” per motivarne il giudizio, e dall’altra chi pur apprezzandolo l’ha trovato sopravvalutato.

La pellicola, diretta appunto dal celebre Steven Spielberg e tratta dall’omonimo musical di Leonard Bernstein, è il secondo adattamento cinematografico del musical dopo il film del 1961 di Robert Wise e Jerome Robbins. Per questo motivo, il giudizio negativo che si basa sulla trama non ha motivo di esistere, constatazione che ci porta a scartare (tra il divario sopracitato) il parere totalmente negativo. West Side Story è sicuramente la manifestazione in chiave musicale della regia di un colosso della cinematografia, ma questo non vuol dire che il film non abbia dei difetti.

La trama

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La parabola narrativa di West Side Story si ispira liberamente a Romeo e Giulietta, non apportando sostanzialmente nulla di più all’opera teatrale. I temi della tragedia di Shakespeare vengono contestualizzati e prendono vita in una New York in piena ascesa socioeconomica.

Siamo negli anni ’50, nell’Upper West Side di New York, in un periodo fortemente colpito dalla rivoluzione urbana che portò questo luogo a divenire zona residenziale, prima popolato da etnie differenti. La storia prende vita da qui, vedendo ogni giorno i Jets e gli Sharks, due bande adolescenziali, contendersi il dominio del territorio.

Proprio come in Romeo e Giulietta, due giovani appartenenti a fazioni rivali si innamorano scatenando il caos. Da una parte Tony, newyorkese appena uscito di prigione e migliore amico del boss dei Jets, Riff (Mike Faist, visto di recente in Panic), e dall’altra la dolce e testarda Maria, diciottenne portoricana e sorella del capo degli Sharks, Bernardo (David Alvarez). Sarà proprio questa relazione a innescare e alimentare l’odio tra le due fazioni, che porteranno a un esito già scritto: la tragedia.

West Side Story tra alti e bassi

Nonostante la comprensibile opinione in merito alla trama e i dialoghi, che possono certamente non essere apprezzati, il timbro stilistico della regia di Spielberg è presente e si nota. Il regista riesce anche stavolta a colpirci con l’effetto magia che solo i suoi fotogrammi e le sue tecniche di regia potrebbero manifestare. Come ha raccontato durante la campagna promozionale, il vinile dell’opera teatrale di Arthur Laurents, Stephen Sondheim e Leonard Bernstein lo ha conquistato all’età di dieci anni, quando lo trovò in casa.

Il piano sequenza iniziale ci avverte fin da subito sulla portata di quello che vedremo, la manifestazione della sua bravura è un musical come non se ne vedevano da diverso tempo.

L’appunto che mi sento di fare, non potendo chiaramente toccare la regia e neanche la trama originale, è ciò che palesemente non ha funzionato come avrebbe dovuto. Con lo sceneggiatore Tony Kushner, Spielberg ha tentato di correggere gli aspetti dubbi del film del 1961, inclusa la sua rappresentazione sprezzante dei personaggi portoricani e gli stereotipi di una New York difficile. Ma, invece di ripensare la storia, l’ha puntellata con nuovi e poco curati punti psicologici, insieme a superflui riarrangiamenti drammatici. Il tentativo di patinare la crudeltà di alcune scene del primo film disturba chi ormai è stanco di prodotti filtrati e fatti per un pubblico medio. Nell’originale, diretto da Robert Wise, infatti, i Jets sono più che semplici difensori degli interessi bianchi, sono bulli a servizio completo che molestano anche i bambini bianchi. Questa volontà di razionalizzare l’aggressività non convince, soprattutto non oggi.

Come musical è un successo

Se su diversi punti ci sarebbe tanto da dire, c’è poco da discutere sul fatto che West Side Story sia un vero e curato musical. Oltre a un cast talentoso, di cui parleremo più avanti, l’altro valore aggiunto di questo film è la sua realizzazione. Fin dal primo istante siamo conquistati dalle coreografie, dalle musiche riarrangiate, dalle voci, dalle ambientazioni e da alcune chicche di fotografie che non passano inosservate (pensiamo alla scena in cui le ombre delle due fazioni si fondono tra di loro). Chiaramente guardarlo su Disney+ rispetto al grande schermo ci priva delle caratteristiche forti del film e lo penalizza molto.

Da anni ormai siamo abituati a musical che pur portando quel nome non ne rispecchiano la classicità che ci aspetteremmo. Questo, probabilmente, è dovuto anche all’evoluzione di uno spettatore che va di fretta e che vive su Spotify, classificando come piacevole una musica che segue uno schema e che è orecchiabile. Pensiamo a The Greatest Showman e all’enorme successo avuto: le canzoni del film sono letteralmente strepitose e chiunque le ricorda, al contrario di quelle sentite in Les Misérables, meravigliose ma difficili da ricordare.

Questo chiaramente è da imputarsi all’opera di riferimento, che nel caso di Les Misérables e West Side Story ha radici profonde e più classiche. Questo, nonostante sia manifestazione di una colonna sonora superba e curatissima, distoglie l’attenzione per la sua lunghezza e spesso finisce per essere dimenticato.

Il finale, a differenza dell’opera Romeo e Giulietta, non vede la morte di entrambi gli innamorati ma solo di Tony, lasciando Maria in vita e rendendola però di fatto libera di vivere la sua vita.

West Side Story non conquista tutti

Nonostante il cast eccezionale e l’hype creato attorno al film, West Side Story ha registrato un flop al box office. L’esordio nelle sale statunitensi, infatti, è stato al di sotto delle attese: il film con protagonisti Ansel Elgort e Rachel Zegler ha incassato appena 10,5 milioni di dollari nel fine settimana d’apertura. A nulla sono valsi i 2.820 schermi messi a disposizione da 20th Century Studios e Disney, che stimavano almeno 13 milioni di dollari di incassi nel primo week-end d’uscita.

In conclusione, non potevo non soffermarmi sul cast, con qualche attenzione in più sull’esordiente Rachel Zegler, la cui voce è una delle migliori sentite ultimamente.

L’altra grande scoperta è la cantante e ballerina statunitense Ariana DeBose. L’attrice, dopo essere apparsa in altri musical nel corso degli anni, tra cui Hamilton e Summer: The Donna Summer Musical, ha dato il meglio di sé con il ruolo di Anita in questo remake. Bravo anche Ansel Elgort, che ancora una volta dimostra la sua bravura nell’interpretare qualsiasi tipo di parte al meglio.

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