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Il film della settimana – Arrival

Tutti abbiamo vissuto quella spiacevole situazione raccontata brillantemente da Zerocalcare in Strappare lungo i bordi: chi non è mai stato ore a scorrere i film sulle piattaforme streaming e non trovare niente da vedere pur avendo a disposizione “tutto l’audiovisivo del mondo” e pensando “è possibile che son tutti film de m*rda”? Certo, la roba bella magari l’abbiamo già vista, altra siamo in ritardo e altra ancora la teniamo per il momento giusto – se arriverà. Vogliamo evitare, però, di finire nella fantascienza polacca del ‘900 in lingua originale, andare a letto frustrati con la nostra coscienza sottoforma di Armadillo che ci costringe a interrogarci su noi stessi dicendo: “Dai su, se su ottomila film non te ne va bene manco uno, forse sei te che non vai bene”. Proprio per questo nasce la seguente rubrica settimanale, in onda ogni lunedì e rivolta sia a chi la pellicola in questione non l’ha mai vista, sia a chi l’ha già visionata e vuole saperne di più: infatti, nella prima breve parte vi consigliamo un film; nella seconda invece ve lo recensiamo, analizziamo o ci concentreremo su un aspetto particolare. E questa settimana abbiamo scelto Arrival.

PRIMA PARTE: Perché, dunque, vedere Arrival? Ecco la risposta senza spoiler

Disponibile su Netflix e Starz (a noleggio su Apple Tv, Timvision, Chili e Infinity), Arrival è incentrato su Louise Banks, linguista conosciuta in tutto il mondo e madre che ha appena perso una figlia prematuramente. Mentre il mondo impazzisce per l’arrivo sulla Terra di dodici navicelle aliene, la donna e il fisico teorico Ian Donnelly devono penetrare all’interno di quei monoliti per scoprire che cosa vogliono gli extraterrestri che li abitano: sono una minaccia da sconfiggere oppure hanno intenzioni pacifiche? Un incarico complicato per Louise e che la porterà a scoperte intimamente sconvolgenti.

Arrival era un test importante per Denis Villeneuve, alla sua prima volta con la fantascienza. Non solo l’ha passato a pieni voti, ma ottiene pure la lode perché questo film si è rivelato uno dei migliori sci-fi del nuovo millennio. Non ha snaturato l’opera di base (il racconto Storie della tua vita di Ted Chiang) e l’ha irrorata con la sua poetica e con elementi tipici della spettacolarità cinematografica senza, però, diventare banale, creando una sorta di blockbuster d’autore. Ne risulta una pellicola solida, consapevole, profonda e capace di immergere totalmente il pubblico nella storia e nei suoi personaggi, facendogli provare le stesse gioie, paure o dubbi. Ciò è stato possibile anche grazie alle ottime interpretazioni del cast, tra cui Jeremy Renner (Ian) e Forest Whitaker (il colonnello Weber). Tuttavia, a spiccare è la straordinaria performance di Amy Adams, perfetta nei gesti e negli sguardi, magistrale nell’esprimere ogni emozione di Louise.

Arrival è un film che non spiega tutto, ma che pone ottimi spunti di riflessione e lascia che sia il pubblico a unire tutti i fili e a trarre le proprie conclusioni. Non è solo fantascienza, ma molto di più con quei suoi potenti messaggi e i vari livelli di lettura. Tra le migliori sceneggiature del 21esimo secolo, nella seconda parte del pezzo proveremo ad analizzare questa meraviglia di cui, purtroppo, si parla ancora troppo poco.

SECONDA PARTE: L’analisi (con spoiler) di Arrival

Negli ultimi anni il cinema sci-fi ha subito diversi e innovativi cambiamenti. Ad esempio, i protagonisti non sono più avventurieri eroici e spericolati o militari che vogliono fermare con la forza qualsiasi cosa incroci il loro cammino, ma scienziati – o, in generale, studiosi – appassionati e che ci fanno appassionare alla scoperta e comprensione dell’ignoto, usando come “arma” la loro conoscenza. The Martian, Interstellar e in parte Gravity corrispondono a questo filone, dove rientra pure Arrival. Denis Villeneuve incentra l’opera sulla difficoltà di capire l’altro e sul timore che proviamo di fronte all’estraneo. Infatti, a causa di ciò, alla notizia di alieni sbarcati sulla Terra, la popolazione mondiale entra nel panico, che poi degenera in confusione e violenza con furti e rivolte, perché quel momento viene percepito come la fine del mondo. E i capi di Stato non collaborano tra di loro, le nazioni si tengono nascoste informazioni preziose e la crisi internazionale sembra imminente.

È lo shock culturale provocato dall’non-noto, con gli alieni che, appunto, incarnano la paura per lo straniero e il diverso. Perché ciò che non conosciamo, spaventa.

C’è chi crede nell’esistenza di altra vita nell’universo e chi no; per adesso non ci è dato saperlo. Eppure, qualora gli alieni dovessero arrivare sul nostro pianeta, ci immaginiamo sempre il peggiore degli scenari (e la fantascienza filmica e televisiva aiuta in questo), ovvero quello in cui veniamo invasi da esseri superiori che vogliono distruggerci o conquistarci. Poi ci sono quelle persone, come Louise e Ian, che vogliono scoprire qualcosa di più su queste creature, senza considerarle immediatamente una minaccia come ci è sempre stato insegnato.

I due protagonisti si aprono all’estraneo e si scrollano dalle spalle i pregiudizi, rompendo con i soliti schemi militari della violenza, così da accedere al sapere e avvicinarsi a quell’ignoto che diviene sempre più conoscibile. Ascendendo ad archetipi, diventano dei moderni Adamo ed Eva che, salvando il mondo dagli stessi umani che l’avrebbero distrutto, evitano il ritorno di una nuova Babele; non è nemmeno un caso che le navicelle siano dodici (come gli apostoli) e gli alieni vengano chiamati eptapodi dal numero delle loro gambe (il sette, infatti, è un numero importante in molte culture e religioni).

Arrival

Superando l’incomunicabilità che ha portato spesso l’umanità, nel corso della storia, a proclamare inutili guerre senza prima aprire un dialogo, viene mostrato come gli eptapodi non siano i soliti alieni cattivi, ma una specie pacifica che vuole solo conoscerci per poterci aiutare. Un po’ come succede in 2001: Odissea nello spazio, dove gli alieni guidano l’uomo nel prossimo stadio dell’evoluzione.

Ed è il linguaggio, da sempre veicolo di unione tra popoli, a rappresentarne lo strumento in Arrival.

Louise prima insegna la nostra lingua agli alieni, con la significativa scena in cui il personaggio di Amy Adams ha l’intuizione di passare dal linguaggio orale a quello scritto e la prima parola che scrive sulla lavagnetta è “umana”, indicando sé stessa con occhi carichi di emozione e timore: rappresenta l’essenza dell’attore poiché riesce con uno sguardo riesce a dire quello che le parole esprimerebbero in un’intero libro. Successivamente la linguista impara il sistema comunicativo degli eptapodi. Il loro linguaggio non è lineare e glottografico, ma circolare e semasiografico; non c’è una corrispondenza tra parlato e scritto, ma sono simboli grafici che rappresentano dei concetti: l’intera frase compare istantaneamente, come se gli alieni non distinguessero ciò che viene prima da ciò che viene dopo; ciò comporta che bisogna conoscere in anticipo lo spazio occupato, il modo in cui strutturare la proposizione e via dicendo. Inoltre, proprio per i motivi sopracitati e per la circolarità della lingua eptapoda, è un’ortografia svincolata dal tempo, che non ha una direzione né in avanti, né indietro.

Il film di Denis Villeneuve, infatti, ruota intorno all’ipotesi Sapir-Whorf, che sinteticamente potremmo descrivere così: data l’intensa profondità del legame tra linguaggio e pensiero, il primo determina il secondo; di conseguenza, quando impariamo una nuova lingua, modifichiamo il nostro modo di pensare e, contemporaneamente, la nostra percezione della realtà.

Più la Louise di Amy Adams si immerge nella lingua degli alieni, più inizia a ragionare nel loro stesso modo e più i concetti di passato e futuro si dissolvono. Anche quello di memoria diventa altro per lei, poiché i suoi ricordi abbracciano la totalità del tempo, andando non solo indietro ma anche in avanti e fondendo il prima e il dopo in un’unica idea di memoria. È come se il suo cervello fosse stato riprogrammato e ciò le consente di manipolare il tempo in maniera ciclica: così apprende le esatte parole che dirà al presidente cinese per convincerlo a non attaccare gli alieni. Ritorna qui il tema della comunicazione con l’altro. Mentre la protagonista impara la lingua aliena, noi partecipiamo attivamente all’apprendimento, con sempre più simboli tradotti. La telefonata cinese, invece, ci è preclusa e non la conosciamo; per questo, rivolgendosi direttamente a noi, Denis Villeneuve ci invita a riflettere e a porci determinate domande.

A proposito di noi spettatori, due parole vanno spese per l’elemento metacinematografico di questa pellicola di fantascienza. Quando entrano nel monolite, Louise e Ian si trovano in una stanza buia sul cui fondo compare uno schermo rettangolare enorme, attraverso il quale comunicano con gli extraterrestri. Gli umani, dunque, sono gli spettatori al cinema, divisi dai personaggi da uno schermo così come gli scienziati dagli alieni, questi ultimi che rappresentano il regista o, meglio, il film stesso.

Ecco che Arrival diviene una metafora sul ruolo del pubblico, delle opere filmiche e del rapporto tra i due, che li porta sempre più vicini superando ogni barriera comunicativa. Allo stesso modo degli alieni di Denis Villeneuve, il film non vuole altro che offrire un dono al pubblico/umanità; un regalo linguistico grazie al quale sono in grado di modificare la loro realtà.

E sempre alla metacinematografia si ricollega la struttura narrativa di Arrival, che solo nel finale rivela il significato che aveva racchiuso nella frase d’apertura:

“Un tempo pensavo che questo fosse l’inizio della tua storia. La memoria è una cosa strana, non funziona come credevo. Siamo così limitati dal tempo, dal suo ordine.”

Arrival

Il personaggio di Amy Adams comincia con queste parole il racconto della vita della figlia. Nella conclusione del film di fantascienza, ci viene rivelato che le scene iniziali non sono un flashback, ma un flashforward della futura bambina che avrà con Ian. Essendo la sua mente libera di muoversi nel tempo come fosse una dimensione fisica grazie al dono degli eptapodi, è in questo modo che Louise ci narra la sua storia, in un film in cui l’inizio e la fine coincidono perfettamente e il cerchio assume un valore importantissimo. È circolare la scrittura degli alieni, il nome Hannah (un palindromo, ovvero si legge uguale in entrambi i versi), la nostra stessa natura dove vita e morte sono estremi inscindibili del nostro tempo sulla Terra. E alla fine anche i governi mondiali, attraverso le visioni della linguista, comprendono il regalo degli eptapodi: la loro lingua, data a noi umani a piccoli pezzetti che, se messi insieme, permettono di accedere alla loro cultura e alla loro tecnologia.

Tutto ciò che è stato spiegato mostra chiaramente quanto quest’opera di Denis Villeneuve sia straordinaria.

Un gioiellino della fantascienza che lascia davvero il segno nelle nostre menti, grazie alla volontà del regista di mostrare l’Altro non come minaccia, ma come opportunità di una nuova vita. E fa paura, la stessa Louise è spaventata. Ma non si lascia scoraggiare: il personaggio di Amy Adams accoglie questo sentimento dentro di sé e lo restituisce tramite la nuova lingua che ha imparato, uno strumento che diventa un modo diverso di vivere. Traducendo il linguaggio alieno, traduce noi stessi con i punti di forza e di debolezza, non dandoci tutte le domande ma aiutandoci nella riflessione per trovare dentro di noi i giusti quesiti con le giuste risposte. Che sono lì e che, in fondo, basta solo ascoltare. Ma più di tutto, più di aver aperto un varco dentro la nostra esistenza, forse il dono più grande degli alieni è l’averci riunito non con la guerra o la distruzione ma tramite lo strumento più antico che possediamo: il linguaggio. Aprendoci la strada verso nuove e allettanti prospettive.

Il film della scorsa settimana: Seven