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Lettera d’amore di un fan a Doctor Who

TRUST ME, I’M THE DOCTOR

Doctor? Doctor Who?

Mi sono avvicinata a questa Serie per caso, puro caso. Era nel catalogo di Netflix. Non è che non la conoscessi, tutt’altro, ne avevo sentito parlare da un po’ solo che … sapete quando siete attirati da qualcosa ma non completamente, non del tutto? Oppure, quando anziché bere un bicchiere di vino vi ritrovate a esservi scolati la bottiglia anche se non era vostra intenzione dall’inizio? Ecco questo è successo a me con Doctor Who. É capitato.

Che poi, io non la volevo neppure davvero iniziare, capite? É stata la curiosità, il sentirne parlare tanto. La trasmettevano su Rai 4, ho visto qualche puntata ma non mi ci sono mai impegnata seriamente.
Che poi, è in realtà il genere ad avermi attirata o forse, a dire il vero, una vocina dentro la mia testa. Una vocina che, vuoi per il tempo che non è mai abbastanza, vuoi per le Serie Tv che invece sono sempre troppe, non sono stata davvero a sentire. Mettiamoci anche il fatto che un po’ mi rompeva l’idea di andare a “recuperare” (a buon intenditore poche parole”) ben otto stagioni.

Che poi è una Serie per bambini! E forse non è in fondo anche sopravvalutata?!
Che poi … voi lo seguireste mai un alieno, decisamente stramboide, che cambia faccia e viaggia ovunque nel tempo e nello spazio in una cabina telefonica blu? Una cabina telefonica blu! Seriamente?

Doctor Who

“Come along” dice il Dottore, ti prende per mano e ti urla di correre. «Ma da cosa? Perché?», eppure corri, contro ogni logica, contro quello che ti è stato insegnato quando eri piccolo: agli sconosciuti non bisogna dare la parola. Eccoti lì a seguire uno strano uomo venuto dalla stelle. E lui ti guarda e dice  «Trust me, I’m the Doctor» Ancora con questa storia! Doctor? Doctor Who?

Poco importa, non capita poi tutti i giorni che un uomo cada dal cielo e ti proponga di viaggiare con lui. Un viaggio non da poco si capisce, tutto il tempo e lo spazio, quello che è stato e sarà, la fine dell’universo e l’inizio di tutto. Alberghi le cui stanze nascondono le tue più profonde paure, un pianeta che è un’enorme libreria, arrivi perfino sulla Luna passando per l’Orient Express, nello spazio ben inteso. Ci sono persino i dinosauri su un’astronave!

Una chiacchierata con Agatha Christie, una botta in testa a Hitler e Vincent Van Gogh ti dedica un quadro. Hai appena visto esplodere il Vesuvio, per non parlare dell’infestazione di piante a Londra. Ricordati di correre mi raccomando, i Dalek sono proprio dietro di te, quello accanto a te e uno Zygon? I Cybermen vogliono fare un piccolo upgrade. E mi raccomando “Don’t blink”! Scommetto che hai già il fiatone e non è neppure l’ora di pranzo!

Questo non risolve molto però, sembra solo un’altra Serie di pseudo fantascienza. Come se fosse la prima! La domanda c’è ancora scommetto. Perché vedere Doctor Who? Quanto è semplice e allo stesso tempo maledettamente difficile rispondere a questa domanda. Non so davvero se esiste una riposta che possa andare bene per tutti. Piuttosto posso dirvi perché IO non mi sono fermata, perché ho continuato a viaggiare con lui e raccontarvi di quando ho pianto per l’addio dei Pond e riso per il fez di Eleven, di tutte le volte che ho ripetuto «Allons-y, Alonso!» insieme a Ten, di quando ho sbattuto la testa per cercare di capire tutta la storyline di River Song (ah River Song), quando ho stretto i pugni o ho sorriso come una bambina.

Ecco! Ecco la parola che continuava a scivolarmi via. Silly, silly old me! Perché il segreto sta proprio qua, essere bambini è la chiave. Ricordare per 45 minuti, senza vergogna quanto era bello meravigliarsi e sgranare gli occhi e chiedere “perché?” e sorridere senza imbarazzo per ciò che oggi ci sembrerebbe stupido e non sentirci grandi anche se lo siamo fuori.

Tornare a quando semplicemente credevamo che la magia fosse possibile, che a 11 anni sarebbe arrivata la lettera da Hogwarts, che gli alligatori nelle fogne non siano poi così inverosimili, che, chi lo sa, magari dentro l’armadio il passaggio per Narnia lo troviamo, che sotto il letto abbiamo sentito davvero muoversi qualcosa nel buio. Se questo è possibile perché non può esserlo il Dottore? Solo per 45 minuti.

Doctor Who

The Doctor in the Tardis

Io 45 minuti me li sono presi e anche di più e ho imparato tante cose che non sapevo, altre le ho ricordate. Ho ricordato cosa voleva dire chiedere “Perché?”, sgranare gli occhi e rimanere a bocca aperta (letteralmente). Il Dottore mi ha insegnato che tutti siamo importanti e che persino lui ” 988 years I’ve never met anyone who wasnt’ important”. Ho imparato che “it’s bigger on the inside”. Sempre. So che nelle parole c’è potere, che i veri mostri non hanno squame o artigli, che dobbiamo essere curiosi e forti e gentili e altruisti e meritevoli. Tutto questo me l’ha insegnato con una favola. Una favola semplice, ideata apposta per un bambino.

C’era una volta un alieno che veniva da un pianeta chiamato Gallifrey, annoiato e curioso di scoprire l’universo (!!!) un giorno rubò una macchina del tempo (o forse fu il contrario) e si fece chiamare Dottore, da allora non si è più fermato. L’Universo l’ha visto in lungo e in largo seguito da numerosi companions, ha affrontato nemici di ogni sorta e cambiata faccia una o meglio 13 volte.

The mad man in a blue box

Intendiamoci però, Doctor Who non è un santo, non è perfetto, tutt’altro. É un po’ scienziato, un guerriero e sì, senza dubbio, un eroe. Però il Dottore sbaglia e sbaglia tanto, soffre e grida, ride e batte le mani, ama e odia ed è il primo dei bambini e il più anziano tra i vecchi. Conosce l’infinità dell’universo e la complessità delle leggi fisiche e poi non comprende la semplicità racchiusa in un bacio e quei sentimenti fondamentalmente umani. Forse perché, a ben pensarci, non sono forse questi più complessi di qualsiasi legge fisica? E si sorprende dopo tutto questo tempo di essere ancora in grado di piangere.

A 1200 anni è difficile provare qualcosa dice, guardare ciò che lo circonda e sorprendersi ancora, per questo ha bisogno di occhi nuovi, gli occhi di donne e uomini (ma in verità soprattutto donne, bravo lui) che lo facciano al posto suo, occhi che vedono l’universo per la prima volta e, con quegli occhi, vederlo lui stesso per la prima volta, di nuovo. Gli occhi di Rose e Martha e Donna, di Amy e Rory e Clara. I nostri occhi in fondo. Noi siamo i companions. Proviamo quello che provano loro. Siamo terrorizzati ma non riusciamo a fare a meno di seguirlo. Non più, ci siamo troppo dentro.

Doctor Who

“All time and space” questo offre sorridendo sicuro di sé. Certo! Come si potrebbe rinunciare a una tale offerta? Forse, anzi sicuramente, non finirà bene però, quando finirà, ognuno di loro potrà dire di essere stato una piccola parte di quella straordinaria, impossibile avventura vivente che è il Dottore. E si sa, il Dottore è meglio non rimanga solo troppo a lungo, quando sei l’ultimo della tua specie, hai 1000 anni e tutto il tempo e lo spazio a tua disposizione è facile farsi prendere la mano. Sapete perché i companions sono davvero necessari? Non solo perché l’universo assume nuovi colori e forme con loro ma perché lo rimettono in riga, gli insegnano la lezione più difficile: essere umani.

Quell’umanità che lui così poco comprende e allo stesso tempo ama, per cui è sempre pronto a combattere e di cui si è eletto protettore indiscusso. Però non sa dire addio il Dottore, preferisce scivolare lui via dalle vite delle persone che ama prima che siano loro a farlo; così le avventure non durano per sempre e i companions vengono lasciati indietro o, nel migliore dei casi, lasciano indietro lui. Dopo un po’, questo è certo, non riescono a stare al passo. Come potrebbero? A un certo punto diventa tutto troppo impegnativo o troppo doloroso e un altro giro di giostra finisce.

I am and always will be the optimist, the hoper of far-flung hopes an the dreamer of improbable dreams

É solo il Dottore alla fine dei conti, ha paura di se stesso, di quello che è stato e quello che ancora potrebbe essere se nessuno lo tiene per mano. Sarà anche  vanitoso il Dottore, vuole un pubblico e essere venerato, desidera ardentemente che le persone si ricordino di lui, che lo seguano persino, non pensa alle conseguenze. É vecchio, tanto da non riuscire a ignorare un bambino che piange o un mondo in rovina. Inoltre è divertente, casanova, vendicativo, irascibile, imbranato, geniale e cool … beh magari questo pensa di esserlo.

E per quanto possa apparire sicuro di sé, ironico e affascinante in realtà il Dottore nasconde una grande insicurezza, ritiene di non meritare il perdono né la fede che tutti gli altri hanno nei suoi confronti, (*per questo piange a Natale sulla soglia di casa Pond, per questo rimane sorpreso e senza parole, proprio lui chi l’avrebbe mai detto!) nella sua spavalderia non crede poi davvero di meritare la fiducia, l’amore e l’amicizia.

Ma a ben pensarci, non siamo forse noi il Dottore? Non cambiamo forse anche noi “faccia” man mano che cresciamo? Non ci trasformiamo ancora e ancora divenendo quasi irriconoscibili ? Quasi, eh. Siamo sempre noi nonostante tutto. Noi diversi ma ancora noi. Il Dottore che cambia volto ma ancora il Dottore.

Doctor Who

Per questo non ho smesso di guardare Doctor Who, perché ogni volta c’è qualcosa di nuovo da vedere o da affrontare ma soprattutto qualcosa di nuovo da scoprire riguardo noi stessi. Quello che siamo e che potremmo essere, se solo per un po’ iniziassimo a sorprenderci di nuovo come quando eravamo bambini. Ho visto otto stagioni in un mese perché non riuscivo a smettere di sgranare gli occhi, e ho riso e pianto (e tanto anche!) e ho detto “wow” un’infinità di volte. Perché nella sua semplicità Doctor Who mi ha colpito come nessuna altra storia ha fatto prima d’ora, è geniale senza la presunzione di volerlo essere, è scritta da persone che amano il loro lavoro e si vede, ti affezioni a un attore e te lo strappano via e poi di nuovo e di nuovo.

Ho recuperato la vecchia generazione per poi ammirare Christopher Eccleston, il coraggio di riportare dopo tanto tempo il Dottore in Tv e l’energia risentita di Nine, ho osannato David Tennant e la straordinaria umanità di Ten; ho amato Matt Smith, anche se in ritardo, e il suo Eleven bambino e vecchio insieme; e adesso ci lascia anche Peter Capaldi con il suo “classico” e profondo Twelve. É una Serie vera, vibrante che lancia la sua freccia centrando il bersaglio.

Doctor Who è un romanzo epico, è un’immensa opera sinfonica in cui coesistono la violenza di Wagner negli scatti d’ira del Dottore; la vita di Rossini in quel correre senza sosta e nell’imbranataggine tipica di Eleven; la lirica di Verdi nell’amore per Rose, per River, per i Ponds; la cupezza di Beethoveen e la poesia di Mozart.

Doctor Who è, per me, un capolavoro che non avevo cercato, che non avevo chiesto e in cui non ho creduto dall’inizio. É una storia che ho amato pian piano fino a non rendermi conto di quanto ormai fossi irrimediabilmente catturata. Che mi ha regalato straordinarie performance e parole dalla forza raggelante. Che mi ha insegnato che la vera famiglia è quella che noi scegliamo per noi stessi.

Mi ha ricordato a non avere paura di guardare cosa si nasconde sotto il letto nel buio, ad aprire sempre l’armadio con la speranza di trovarci un mondo li dentro e continuare ad aspettare ancora quella famosa lettera. E, soprattutto, mi ha insegnato che cambiare è importante e giusto a patto che si ricordi le persone che siamo stati perché solo così potremmo andare avanti e crescere e migliorarci. E se teniamo a mente questo, oggi, allora domani potremo dire di essere diventati grandi.

Adesso quindi vi chiedo di nuovo, un’ultima volta, voi questo Dottore lo seguireste nel tempo e nello spazio? Io ho già risposto da un po’.

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