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Light Yagami è l’archetipo del villain senza redenzione

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C’è una regola non scritta nella narrazione classica: il male deve pagare. Ci aspettiamo redenzioni, confessioni, rimpianti, o almeno una morte catartica. Ma poi arriva Death Note (disponibile sul catalogo Netflix qui), e con lui Light Yagami, il volto angelico del controllo assoluto, un ragazzo perfetto che scivola nel buio senza mai voltarsi indietro. Quando lo incontriamo per la prima volta, Light è l’immagine scolpita della perfezione giapponese: studente modello, bello, carismatico, destinato a una carriera brillante. È il figlio che ogni genitore vorrebbe, l’alunno che ogni professore sogna. Eppure sotto questa superficie patinata, cova una noia esistenziale. Light guarda il mondo con disprezzo, lo trova sporco, corrotto, indegno della sua intelligenza, seppur non lo dia mai palesemente a vedere.

E quando il Death Note cade tra le sue mani, non esita neppure per un istante.

Light è affascinante, intelligente, calcolatore. Le sue ragioni potrebbero persino sembrare sensate, almeno all’inizio. Mosso dalla volontà di ripulire il mondo dai criminali e dal male, Light lo diventa egli stesso, giustificandosi ancora e ancora. Perché Light non cambia mai, non ha un arco di redenzione, non impara nulla, non ha momenti di rimorso in Death Note. Quando Ryuk – il dio della morte che gli ha dato il quaderno – gli dice che finirà da solo e che lui non è suo amico, Light accetta impassibile ogni sua parola. Non cerca nemmeno di salvarsi, convinto di essere il dominatore del destino altrui.

Secondo i modelli del cattivo da manuale, Light Yagami non è un personaggio che “diventa cattivo” nel senso classico. Non è Eren Jager. Light vuole creare un mondo ideale, libero dal crimine, usando il libro della morte per giustiziare i malvagi. La sua è una visione fredda, assoluta, verticalizzata. Sostituisce Dio perché crede che lui stesso possa fare meglio. Il suo è un progetto di controllo totale. Eren, al contrario, anela alla libertà. Fin dall’inizio, il suo sogno è scoprire il mondo fuori dalle mura, avere per la prima volta nella sua vita la possibilità di scegliere. Quando, però, si rende amaramente conto che lui e i suoi amici sono alla mercé di un sistema storico e ideologico che li schiaccia, decide di reagire con violenza. La sua lotta nasce dal desiderio di spezzare le catene. Eppure, paradossalmente, per ottenere quella libertà è costretto a diventare l’incarnazione della tirannia.

Light Yagami scrive sul Death Note
Credits: Netflix

L come specchio

E come ogni villain che si rispetti, anche Light ha un antagonista d’eccellenza. L è l’unico in grado di tenergli testa, un detective asociale, geniale, dal comportamento bizzarro. I due si studiano, si sfidano, si rispettano, ma soprattutto rappresentano due facce della stessa medaglia. Dove il detective usa la sua intelligenza analitica per fare del bene, il cattivo si fa scudo con carisma e furbizia. Quando Light riesce a ucciderlo – e il modo in cui lo fa è di una crudeltà chirurgica – si crea immancabilmente un vuoto. Perché L era il suo specchio, e dopo la sua dipartita, non ci sono più catene, reali o metaforiche che possano tenere a freno la hybris di Light. Ed è proprio lì che inizia la sua discesa più tragica.

L’apparizione di L in Death Note è uno di quei momenti che riscrivono le regole del gioco.

Quando entra in scena, Light ha già fatto piazza pulita di decine di criminali. Si sente intoccabile, onnipotente, un dio nascente in un mondo troppo sporco. L è lo specchio oscuro di Light. Non nel senso classico del “contrario morale” (quella funzione spetta semmai a Soichiro, il padre di Light, che rappresenta la giustizia tradizionale), ma nel senso di riflesso intellettuale. Entrambi sono ossessionati dalla logica, entrambi sono solitari, misantropi, emotivamente scollegati dal mondo. Tutti e due vedono le persone come pedine su una scacchiera, da muovere secondo il proprio gusto seppur in modo opposto.

È anche per questo che la loro battaglia è così magnetica. Non è un semplice confronto poliziotto-vs-criminale, ma una danza cerebrale tra due menti che si capiscono alla perfezione. Non a caso, Light prova un misto di rispetto, odio e ammirazione per L. Lo odia perché è l’unico che riesce a metterlo alle strette, ma lo stima perché lo riconosce come uguale.

La scena in cui L asciuga i piedi di Light – in una chiara evocazione evangelica – è uno dei momenti più disturbanti e simbolici dell’intera serie. L sa, ma accetta il ruolo che il destino gli ha riservato. È il martire razionale che si lascia morire per cercare una verità che forse non potrà mai provare. Light, in quel momento, lo guarda dall’alto come un dio che riceve una genuflessione. Rimane pur vero che con la morte di L e l’introduzione dei suoi due sostituti ideali, Near e Mello, Death Note perda qualcosa del suo fascino. La loro vittoria finale è una questione di deduzione, sì, ma anche di stanchezza narrativa. Light è ormai logoro, distratto dalla sua stessa arroganza.

La morte di L in Death Note
Credits: Netflix

L’eco del mito: Prometeo, Lucifero, Narciso

Light Yagami non è un semplice villain brillante. È un concentrato di mitologia classica e moderna e tre figure mitiche lo raccontano appieno: Prometeo, Lucifero e Narciso. Solo nel finale di Death Note che questi archetipi rivelano tutta la loro forza.

Prometeo, il titano che ruba il fuoco agli dèi per darlo agli uomini, è il primo riflesso evidente. Light, con il Death Note in mano, si convince di poter cambiare il mondo, liberarlo dal male, imporre una nuova moralità. Si crede portatore di un potere salvifico, giustificato dalla visione utopica di un mondo senza crimine. Ma come Prometeo, anche Light viene punito non tanto per il gesto, quanto per l’arroganza di aver pensato di poter agire da dio. Il finale di Death Note – con Light braccato, ferito, solo, abbandonato perfino da Ryuk – è la sua rupe del Caucaso. Non c’è aquila che gli divori il fegato ogni giorno, ma c’è la consapevolezza, lenta e crudele, che il mondo che voleva salvare lo ha rifiutato e lo ha smascherato.

Lucifero è forse l’eco più potente. L’angelo caduto, l’essere perfetto che si ribella per orgoglio.

Light, primo della classe, figlio modello, incarnazione del giovane brillante e impeccabile, viene sedotto non da un desiderio meschino, ma da un’idea superiore di ordine e giustizia. Il suo peccato originale è la superbia. Non vuole solo sradicare il male: vuole che il mondo lo veneri. Vuole che il suo nome diventi legge, non perché giusto, ma perché suo. Alla fine, come Lucifero, non viene sconfitto da un potere più grande, ma dalla sua stessa presunzione. I suoi errori, la sua smania di controllo, la sua incapacità di ammettere qualsiasi limite lo portano al tracollo. Il figlio prediletto che si è messo contro il cielo finisce divorato dalla sua stessa ombra.

Ma è Narciso la figura che forse ci riguarda di più, che ci disturba di più. Perché Narciso non è solo colui che si ama, ma colui che si perde nell’immagine che ha di sé.

Light non si guarda mai davvero allo specchio. Guarda la proiezione idealizzata di sé stesso come salvatore del mondo. Vive nella finzione che le sue azioni siano giuste, necessarie, inevitabili. Quando Near gli sbatte in faccia la realtà, non la accetta. Non riesce a concepire un mondo in cui lui non sia il protagonista. Il finale non è solo la morte di un essere umano. È la frattura di uno specchio: Light non vede più riflesso il dio che pensava di essere, ma un ragazzo sporco, disperato, che scappa in mezzo alla neve. Che chiede aiuto. Che viene lasciato solo.

Ryuk, spettatore cinico e freddo, mette il sigillo al racconto mitologico. Non ha mai preso davvero le parti di nessuno e proprio per questo la sua frase è crudele come il verdetto di un dio antico: inevitabile, impersonale, giusto nel modo più spietato.

“Ti avevo detto che avrei scritto il tuo nome sul quaderno”

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