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L’esperimento interattivo di Black Mirror mi fa rabbrividire

L’episodio interattivo di Black Mirror, Bandersnatch, lanciato di recente dal network Netflix, ci ha intrattenuto durante queste vacanze di Natale. Grazie al genio di Charlie Brooker abbiamo potuto esplorare le meraviglie di un piccolo universo, far compiere delle scelte al protagonista, scelte anche dolorose. Abbiamo sperimentato il potere, la sensazione di un crescente benessere fastidioso nel poter decidere della vita (seppur inventata) di un personaggio.

Ma non era abbastanza.

Niente è più abbastanza per Black Mirror, che vuole puntare a prendersi le nostre coscienze e manipolarle, dandoci l’illusione del libero arbitrio. Vuole portarci per mano in un parco giochi virtuale, in cui tutto è permesso, in cui non ci sono limiti a ciò che possiamo fare. Vuole illuderci che tutto sia possibile, mentre ci rende pian piano assuefatti alla distopia.

E quindi ecco l’esperimento social più folle mai tentato fino ad ora, targato Netflix Italia. Black Game, esperimento social creato dalla pagina Netflix italiana, ha un concetto di base semplice, geniale e insieme malatissimo. Un ragazzo qualunque, Pierpaolo, per un giorno intero si trova alla mercé degli utenti della pagina che, proprio come accaduto al protagonista di Bandersnatch, gli faranno fare tutto ciò che vogliono.

O meglio, tutto ciò che Netflix Italia vuole. La scelta, come nell’episodio interattivo di Black Mirror, è tra due opzioni, decise a monte dagli organizzatori di Black Game. Si va da cosa indossare per tutto il giorno, a cosa mangiare per colazione, se spalmare sulla faccia di un ignaro avventore di un bar panna o spumante.

E così, una scelta azzardata dopo l’altra, si compie l’incubo.

Black Mirror

Veniamo d’improvviso catapultati in un mondo orribile, una quotidianità banale resa pubblica e alla mercé delle voglie perverse dei partecipanti al gioco. Quello che doveva, e poteva essere, un esperimento sociologico di portata storica, condito da una buona dose di intrattenimento, diventa chiaro fin dall’inizio essere ben altro.

È un circo trash quello che si agita sotto i nostri occhi. Noi pigiamo col pollice un bottone, e Pierpaolo compie i nostri ordini come un pupazzo ammaestrato. Una storia dopo l’altra, diligentemente riportate in tempo reale da Netflix Italia sulla pagina ufficiale, la sua vita diventa una presa in giro. Un gioco a cui noi possiamo partecipare con un click, per ridicolizzare, distruggere, mai per arricchire, far riflettere.

Si arriva anche a chiedere a Pierpaolo quale sia l’oggetto a cui tiene di più, per poi portarlo a distruggerlo. Le sue scarpe da calcio, l’oggetto a cui è più legato, stanno per essere sacrificate pubblicamente dallo stesso Pierpaolo, cavia di tutti noi, sorvegliato a vista da coloro che sembrano una parodia sbiadita e grottesca di due boia dell’Isis.

Due loschi figuri che lo accerchiano, il volto travisato, così come è oscurato il volto della signorina che ci illustra, con una suadente voce anch’essa travisata, le fasi del gioco. Solo Pierpaolo è reale, solo il suo viso ha una concretezza, un significato. Tutto ciò che gli accade sarebbe assurdo, e ironico, se non fosse terribilmente reale. Il pupazzo, la cavia, l’esperimento però si ribella.

Dopo aver accettato di indossare una tuta acetata per tutto il giorno, dopo aver imbrattato la faccia di una comparsa (ce lo auguriamo che lo sia), dopo essere stato lo zimbello di tutti per mezza giornata, ha un cedimento. Si rifiuta di distruggere le sue scarpe, vuole tenere per sé quella parte della sua vita che non si sente di sacrificare.

Black Mirror

Reale ripensamento, o sapiente trucco pubblicitario?

L’esperimento sembra interrompersi. Riprende subito dopo, negli studi di Radio 105, dove Pierpaolo è invitato a parlare della sua esperienza di cavia per Netflix. Non ci dilungheremo su ciò che accade dopo: una becera parata di trash, cattivo gusto, reality show della peggior specie. Ci interessa analizzare la natura di Black Game, e capire come segna un punto di non ritorno nella storia di Black Mirror.

Nel 1961 lo psicologo statunitense Stanley Milgram condusse un esperimento sociologico con alcuni volontari. Lo scopo dell’esperimento era dimostrare come, all’indomani del processo a Adolf Eichmann, si potesse rispondere alla domanda “è possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente eseguendo degli ordini?”.

Divisi in due gruppi, i volontari simularono un’interrogazione. Gli “insegnanti”, a cui fu fornito un generatore di energia elettrica, interrogavano gli “allievi”, a cui veniva attaccato un elettrodo. Gli allievi non in grado di rispondere venivano sottoposti a un finto elettroshock, con tanto di urla, implorazioni, svenimenti simulati. Gli insegnanti, convinti della veridicità dell’esperimento, non si fecero alcuno scrupolo a elettrizzare le loro cavie.

Nonostante la natura stessa dell’esperimento fosse già all’epoca criticata in quanto immorale e non soggetta a veridicità scientifica, Milgram ne dedusse che l’uomo, in situazioni di potere, non si fa alcuno scrupolo a usarlo.

Come possiamo porre in correlazione l’esperimento di Milgram a quello di Black Mirror? In nessun modo. Non ci azzardiamo a formulare la benché minima assonanza tra le inquietanti rivelazioni ottenute dallo studioso sull’animo umano e la scanzonata parata trash proposta da Netflix a puro scopo di intrattenimento.

Black Mirror

Ci limitiamo solo a constatare che, ieri come oggi, l’homo social social non pone alcun limite alle sue bassezze, fosse anche solo per divertirsi. La storia televisiva del nostro paese, negli ultimi 30 anni, ci ha abituati a ben di peggio. Black Game è solo l’innalzamento ulteriore dell’asticella. Un anestetico della coscienza, un palliativo al senso critico, alla riflessione, al processo di elaborazione della modificazione della nostra società, a cui Black Mirror ci aveva abituati.

Conta poco che, al termine dell’esperimento, gli stessi organizzatori del Black Game rivolgano contro di noi la nostra bassezza, le nostre miserie e la nostra febbrile smania di potere, invitandoci alla riflessione. Ormai l’asticella è alzata, il limite è stato valicato. Oppure, come dice la voce travisata, forse no.

È finita l’era di Black Mirror come narrazione distopica, finalizzata all’elaborazione e alla riflessione, e si è aperta l’era di Black Mirror come incarnazione stessa della distopia?

Non lo sappiamo. Sappiamo solo che ormai la distopia è fra noi. Tra le pieghe dei componenti dei nostri smartphone, tra un tap e l’altro del pollice per scorrere le stories su Instagram, è nella nostra testa, è in quello che vediamo, ma ancor più in quello che siamo diventati.

Black Mirror ci aveva avvertito, la stessa Black Mirror l’ha reso reale.

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