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Band of Brothers è un’opera mastodontica. Basta guardare le stime dei costi di produzione per rendersi conto di quanto lavoro ci sia stato dietro la realizzazione di una miniserie come questa: 120 milioni di dollari per mettere in piedi dieci episodi di circa sessanta minuti ciascuno. Dieci episodi che hanno tentato di raccontare le vicende della Compagnia Easy durante l’ultima fase della Seconda Guerra mondiale. Prodotta insieme a HBO da due novellini come Steven Spielberg e Tom Hanks, Band of Brothers è ispirata all’omonimo romanzo di Stephen Ambrose, biografo dei presidenti Eisenhower e Nixon e autore di numerosi libri sulla Seconda Guerra mondiale. Al D-Day dell’autore si ispirò proprio Spielberg per Salvate il soldato Ryan, uno dei migliori prodotti cinematografici di sempre sulla guerra. Nel cast del film pluripremiato all’Oscar c’era, guarda caso, anche Tom Hanks. Il terzetto vincente Ambrose-Spielberg-Hanks è tornato insieme nel 2001 per lavorare a quella che è attualmente la miglior serie tv sulla guerra che sia mai stata realizzata.

Band of Brothers è un’opera mastodontica, dicevamo. Un monumento alla memoria della nostra storia più recente, come se ne trovano tanti nelle piazze di tutta Europa.

Band of Brothers

Solo che Band of Brothers vive della forza vigorosa delle immagini, della potenza del cinema che si fa qui televisione. Questa miniserie è un monumento ai caduti e un omaggio ai sopravvissuti. È realismo puro, incastonato nelle trincee luride e fangose del nord Europa, dove alla vita bisognava agguantarsi con le unghie e con i denti per non lasciarla scivolare via. È un racconto intenso e lancinante, esasperato e gelido, agghiacciante. Non lascia spazio a sentimentalismi, a edulcoranti espedienti narrativi. In Band of Brothers è tutto vero, tutto intollerabilmente credibile, immediato, profondo. Dirigere una serie come questa ha richiesto coraggio, dedizione e creatività. La regia di Band of Brothers (qui trovate invece la classifica delle 10 Serie Tv con la regia più brillante in assoluto) è un’opera d’arte consegnata ai posteri. Tutti gli episodi seguono più o meno lo stesso schema: la puntata si apre con brevissime testimonianze dei protagonisti reali di quelle vicende, i soldati della Compagnia Easy sopravvissuti alla guerra. È il tocco documentaristico che si dà alla serie, che narra appunto eventi reali, dettagliatamente documentati. Una trovata che riesce a catapultare lo spettatore direttamente al centro della storia.

Non esiste una fase di preparazione, un avvicinamento graduale al teatro della Seconda Guerra mondiale: sono le voci degli stessi protagonisti a trascinarci dentro il conflitto, a chiarirci subito che quella che stiamo per vedere non è fiction, ma vita vera. Gli occhi degli intervistati hanno visto in prima persona quello che noi spettatori guardiamo attraverso lo schermo.

Il realismo è la prima grande sfida vinta di Band of Brothers. Le scene di guerra sono confusionarie, brutali. La camera segue i movimenti concitati dei soldati, indugia sui particolari più truci. L’inquadratura non è mai ferma, ma partecipa al caos circostante. In alcuni episodi la confusione che si genera sullo schermo è tale che risulta difficile distinguere i personaggi, le loro voci, le loro azioni. Non si capisce da dove provengano i colpi di mortaio, quale mano abbia lanciato la granata al di là del fossato. È il trambusto della guerra, il tumulto affannato dei plotoni che avanzano sotto il fuoco nemico, che cercano una via d’uscita in mezzo alle schegge, al sangue, ai corpi feriti dei compagni. La guerra è un pandemonio, restituircela con inquadrature stabili e ordinate sarebbe stato un inganno. In questa serie invece lo spettatore è sempre al centro dell’azione, nel cuore della battaglia.

Band of Brothers

Ogni episodio di Band of Brothers ha un regista diverso.

È un’opera corale, persino dietro la macchina. Sono otto i registi che si alternano nella direzione delle puntate delle serie HBO, tra cui lo stesso Tom Hanks, che ha messo la firma sull’episodio 5, Punto cruciale. Il pilot è affidato al regista statunitense Phil Alden Robinson (L’uomo dei sogni), che ha il compito di racchiudere in un’unica puntata tutto il percorso di addestramento della Compagnia Easy prima della partenza per il fronte europeo. Tra gli altri registi troviamo Richard Loncraine, che ha vinto un Orso d’argento al Festival di Berlino per Riccardo III, un film che ha ambientato l’omonima tragedia shakespeariana negli anni Venti del Novecento, in una Londra sotto dittatura fascista; David Leland (Vorrei che tu fossi qui!), a cui è affidato il racconto dell’operazione Bastogne; Tony To per Missione maledetta; il danese Mikael Salomon che ha diretto l’assalto a Carentan e l’episodio finale; David Frankel (Collateral Beauty, Io&Marley, Il diavolo veste Prada) per Punto di rottura e La tragica scoperta, due tra gli episodi più toccanti di tutta la miniserie; e per Operazione Market-Garden, David Nutter, il regista che per Game of Thrones ha diretto le puntate delle Nozze Rosse, della Battaglia delle Acque nere, il finale della quinta stagione e tre episodi dell’ottava.

Il lavoro di squadra non crea uno sbilanciamento nell’ossatura narrativa della serie, che resta invece la stessa dall’inizio alla fine. L’idea di Steven Spielberg e Tom Hanks era quella di dar vita ad un prodotto che fosse il più possibile aderente alla realtà cruda del fronte, un’opera che raccontasse la vita di quegli uomini scaraventati in una terra ostile, senza punti di riferimento, abbandonati a se stessi. Le operazioni militari vengono riprodotte con piglio quasi documentaristico, sebbene non si sfoci mai nell’appiattimento sulla ricostruzione minuziosa degli eventi storici. I campi lunghi sono pressoché assenti, la camera è in soggettiva, segue i personaggi, si butta nella mischia, resta al centro dell’azione. Lo spettatore riesce così ad avvertire il disagio e lo spaesamento dei personaggi. Ne percepisce il terrore, sente le pallottole sorvolargli la testa. Da questo punto di vista, il sonoro aiuta molto. È avvolgente, confusionario, crea scompiglio. Le sequenze d’azione sono lunghissime – la battaglia per la conquista dei cannoni ne è un esempio -, i nemici non vengono mai inquadrati, se non quando entrano come schegge impazzite nel campo visivo dei personaggi.

L’assenza di punti di riferimento, il non sapere mai dove si nascondano effettivamente i nemici, contribuisce a creare tensione nello spettatore, che si ritrova scaraventato al fronte insieme ai protagonisti, in un luogo sconosciuto di cui non riesce mai ad avere una visione d’insieme, e nel quale si attende da un momento all’altro l’assalto delle truppe nemiche.

La regia di Band of Brothers predilige la visione dal basso, l’unica che riesca a trasmettere fisicamente il senso di fratellanza tra i soldati. La prossimità è fondamentale: difficilmente si seguono le azioni del singolo, è l’intero plotone che è in azione. Un soldato accanto all’altro, un uomo accanto all’altro. Ciò contribuisce a rendere lo spettatore parte del gruppo, elemento dell’azione. E a creare una sorta di misterioso legame con i personaggi, con i quali si condivide il disagio, il senso di inquietudine. Anche le scelte cromatiche intervengono a bilanciare le sensazioni: le scene dell’addestramento e quelle dell’episodio finale sono illuminate quasi sempre dalla luce del sole, mentre il resto della serie è immerso nel buio, nel pallore agghiacciante della neve, nei toni lugubri dell’Europa del nord. Quando la guerra non è più così vicina, le inquadrature si distendono, indugiano sui paesaggi, si lasciano attraversare dalla luce; quando si è invece nel cuore dell’azione, i movimenti sono più concitati e le tonalità si afflosciano, si raffreddano. La guerra in Band of Brothers diventa un malessere fisico che prova a ripercuotersi in chi guarda. Gli effetti sonori, la scenografia, la fotografia (pazzesca), le interpretazioni degli attori e le musiche di sottofondo incorniciano un’opera che sfiora la perfezione e che consegna al pubblico un attestato di memoria più vivo che mai. Band of Brothers è uno spettacolo.

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