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American Gods ha un punto debole, ma sappiamo come superarlo

 American Gods, Serie di punta del canale via cavo Starz, è da poco giunta a conclusione della sua prima stagione. Tra critiche entusiaste e il rinnovo già in tasca lo Show ha dimostrato tutta la sua forza iconica e rappresentativa. È indubbio che il merito principale di un tale apprezzamento risieda soprattutto in una resa scenografica psichedelica e dai forti contrasti coloristici capace di ipnotizzare l’osservatore fin dalla sigla d’apertura. Il taglio molto particolare dato alle inquadrature e ai variegati effetti artistici restituisce una fotografia potente e aggressiva, straniante e intrigante. Il neon domina sovrano con le sfumature di rosso, giallo ocra e blu elettrico.

Le nubi che si addensano e la nebbia che avvolge lo sfondo ci immergono in una realtà che sembra trasformare in colore il bianco e nero dei noir di un tempo.

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Accanto a questa avvolgente e folgorante rappresentazione visiva si pone un’altrettanto sorprendente presenza scenica. Gli attori calcano un palco rarefatto e impastato di contrasti con maestria e garbo. Su tutti Ian McShane nel ruolo di Mr. Wednesday. La mimica facciale, la violenza chiaroscurale del volto (volutamente marcato il contorno occhi) la voce calda ma sporca costruiscono una figura iconica e indimenticabile, affascinante e inquietante insieme.

La stessa attenzione per la caratterizzazione dei personaggi emerge pure in figure secondarie; basti pensare a Mad Sweeney, indimenticabile nei suoi modi da “dannato”. E anzi trova espressione più piena in una figura di riempimento quale la dea dei Mass Media, un’incredibile Gillian Anderson. Il trasformismo dell’attrice, definitivamente svincolatasi dal ruolo di Dana Scully (X-Files), sorprende e restituisce il valore di un’interprete di assoluto livello. La Anderson si destreggia con leggerezza tra leggende della pop culture come Lucille Ball, Marylin Monroe e Ziggy Stardust (David Bowie).

Chiunque sarebbe impallidito e avrebbe rigettato la sceneggiatura trovandosi di fronte a una parte così secondaria e nello stesso tempo tanto impegnativa. Alla stragrande maggioranza degli attori non sarebbe bastato un ruolo da protagonista per riuscire a rendere l’essenza di questi idoli americani. La sempre affascinante Anderson invece condensa nei brevi ritagli a lei dedicati l’essenza più profonda di quei personaggi; l’essenzialità straordinaria di una gestualità che è frutto di uno studio accuratissimo.American Gods

Insomma onore a Bryan Fuller – autore della Serie insieme a Micheal Green (Smalville, Heroes) – capace di rinnovarsi restituendo nuova linfa alle angosciose e pittoriche mescolanze di stili già sviluppate in Hannibal.

A fronte di questi enormi meriti di American Gods, però, va anche segnalato un neo che si staglia fastidioso a intaccare il quadro generale. Debolezze d’altronde è impossibile non riscontrarle in ogni Serie. In questo caso però il pruriginoso punto debole è più urtante del solito; infatti sa molto di occasione persa. Per comprendere di cosa si stia parlando occorre analizzare American Gods a livello contenutistico.

Lasciamo perciò da parte la potenza immaginifica della fotografia e occupiamoci della trama.

La Serie prende spunto e segue in maniera piuttosto fedele il romanzo omonimo di Neil Gaiman. L’impostazione del libro è prettamente fantasy anche se emerge una certa, sotterranea critica alla società moderna. Le nuove divinità altro non sono che “la Tv. Sono l’occhio che tutto vede e il mondo del tubo catodico. Sono la grande sorella. Sono il tempietto intorno a cui si riunisce la famiglia per pregare”. Il nuovo focolare domestico è la televisione; gli dei da venerare sono il consumismo, la fama e il successo. I vecchi culti giacciono dimenticati “in questa nuova terra senza dèi”.

Il rispetto, puntuale e continuativo, della trama del romanzo giunge all’apice con un vero e proprio citazionismo diretto; basta pensare alla frase a conclusione dell’ottavo episodio, su tutte. Laddove però servirebbe una presa di distanza, una svolta interpretativa, la coppia Fuller-Green mostra di non saper assumere le redini del destino della Serie. È proprio sull’aspetto sociale infatti che emerge un preoccupante vuoto contenutistico. Anche se gli aspetti da approfondire sarebbero molti. Dal mondo capitalista che ha come referente primo proprio gli Stati Uniti, alla crisi dei valori tradizionali; fino all’asetticità nei rapporti umani naufragati in contatti virtuali e ipertecnologici.

Pare che si sia preferito accentuare gli aspetti splatter e il virtuosistico gusto masturbatorio per la bellezza delle immagini piuttosto che la profondità di temi sociali e culturali.

Non c’è l’interpretazione attenta del nostro mondo, non emergono le contraddizioni che attanagliano la modernità. Manca insomma quell’humus umano che faccia da sfondo alle contese divine: manca l’uomo contemporaneo. Non troviamo mai personaggi quotidiani che vadano a completare la scena. Che vadano ad arricchire, nella concretezza, le idee solo saltuariamente esposte dai narratori divini.

Non troviamo l’uomo neppure nel protagonista (relativo) di American Gods, quello Shadow Moon sperso e un po’ anonimo.

I dubbi sembrano solo confonderlo e gettarlo in una condizione di continua, involontaria goffaggine. I pochi dialoghi più profondi intrattenuti con Wednesday si disperdono nel mare di avventure (piuttosto grigie) che li vedono coinvolti. Le belle immagini di apertura mostrano spesso i destini degli uomini di varie epoche nei loro sbarchi verso la terra promessa. Quella terra di libertà e opportunità che è l’America. Alle difficoltà e ai fallimenti di questi tentativi colonizzatori non fa da contraltare l’immagine della drammatica attualità di un’America dilaniata da conflitti interni e da un’aridità artistica senza precedenti; la banalizzazione della cultura; il continuo rincorrere i bisogni (sessuali, alimentari, narcisistici) degli uomini che diventano clienti in qualunque rapporto sociale; la fruizione infima e venale in tutti i rapporti umani.American Gods

Ma forse significava chiedere troppo a una rete televisiva come la Starz, tradizionalmente portata a premere spasmodicamente su violenza truculenta e sesso sfrenato (Hannibal, Spartacus, Black Sails). Fatto sta che ci ritroviamo a mangiarci le unghie per quella che poteva essere un’interessantissima disamina dei problemi globali di pressante attualità. Il tutto unito alla bellezza coloristica e all’iconicità degli interpreti.

Lo stesso finale, che non svelerò nel caso qualcuno ci si dovesse ancora confrontare, appare posticcio e poco conclusivo.

Si viene a perdere qualcosa anche a livello di forza rappresentativa attraverso la banalizzazione del potere divino. E non si ottiene il canonico cliffhanger che ci aspetteremmo per una conclusione di stagione. Tutto ci lascia piuttosto perplessi e indifferenti. È insomma questa mancanza contenutistica, questa più ampia analisi sociale che viene meno, il vero punto debole di American Gods. La pecca, seria seppur superabile, fin qui riscontrata. Sarà necessaria un’inversione di tendenza per riuscire a restituire alla narrazione quell’approfondimento concettuale che ha reso monumentali altre Serie.

In un recente, bellissimo approfondimento, vi abbiamo esposto i punti salienti che rendono così iconico un personaggio e la Serie che lo ha come protagonista. Fra di essi c’è il tema della trasformazione. Il percorso tutto interiore e morale del protagonista che passa attraverso le esperienze vissute. È il cambiamento che porta Walter White (Breaking Bad) alla sua degenerazione verso il male (o alla riscoperta della sua natura più profonda); è la revisione etica che restituisce la speranza a Rust Cohle in True Detective e a Jack in Lost.

Insomma, se American Gods vorrà raggiungere i livelli di questi capolavori seriali sarà necessario approfondire l’identità del suo protagonista e il suo sviluppo psicologico. E bisognerà passare anche e soprattutto dall’analisi del contesto sociale dell’opera. Siamo fiduciosi che tutto questo possa avvenire nella seconda stagione. E che la pecca si tramuti in pregio.

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