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Stanis La Rochelle: l’uomo e il divo

In ben tre stagioni di Boris non siamo mai riusciti a sapere il suo vero nome. Per noi è sempre stato Stanis, Stanis La Rochelle. Un uomo che è entrato talmente tanto nell’immagine che si è costruito di se stesso da soffocare quasi completamente l’essere umano che vi si nasconde. Un’immagine che risponde più a una visione strettamente personale e decisamente poco obiettiva del “grande artista” che lo rappresenta. Perché come possiamo ben immaginare, nel contesto fittizio di Boris, nessun altro artista serio si sognerebbe di considerarlo al pari di come egli vede se stesso. Talentuoso, visionario, eclettico.

Boris

Ne abbiamo conferma nella terza stagione, dalla considerazione che ne ha Paolo Sorrentino , prestato dalla realtà al set di una fittizia fiction italiana, all’interno della fuoriserie italiana. Ma potevamo benissimo immaginarlo prima, e difatti ne abbiamo certezza man mano che conosciamo Stanis e le sue millantate virtù. Quelle di cui lui va fierissimo, ma che nella realtà attribuiremmo a un attoruncolo qualunque. Quattro faccette che ti portano a casa almeno tre stagioni. E quelli che devono esser stati degli studi parecchio blandi alla scuola di Marcel Marceau, se il massimo che ha imparato è stato come fare la corsa sul posto.

Ma nel paradigma dell’attore cane che però ci crede un botto, Boris ha inserito quello più sottile ma altrettanto profondo dell’uomo che si costruisce una facciata per sfuggire da se stesso.

Raramente nel corso della serie abbiamo accesso a questo strato sottostante di Stanis. Ma tra una faccia basita e una preoccupata, abbiamo conosciuto anche quella preoccupata per davvero. Quella dell’uomo che riemerge prepotente per scavalcare l’artista. È successo solo un paio di volte, ma sono state sufficienti a fornirci un quadro d’insieme per valutare la figura di Stanis su un piano un po’ più serio e capire dunque che parabola ha voluto raccontarci Boris.

Boris

E così abbiamo scoperto che parla di un uomo comune, che come tanti altri deve aver sofferto di traumi che hanno segnato il suo cammino. Il più palese è quello che evidentemente gli deve aver procurato il padre, Mario, con cui è probabile ci sia stato un rapporto turbolento, caratterizzato da critiche e forse una certa indifferenza da parte di questi come genitore. Non a caso l’episodio in cui Mario si presenta sul set, inatteso e non certo invitato, è il primo in cui vediamo Stanis decisamente turbato e fortemente destabilizzato.

Per la prima volta assistiamo a un nuovo Stanis. Uno Stanis che si sente imbarazzato, messo in difficoltà, e quasi scoperto del suo lato più debole. Ce ne accorgiamo noi nella realtà, se ne accorge Arianna nella finzione, che infatti dice di non averlo mai visto così.

E da questo episodio capiamo per la prima volte dove affonda le radici la natura sprezzante e altezzosa di Stanis. Una natura che, dopo aver approfondito, abbiamo scoperto associarsi a quella del narcisista patologico. Probabilmente il personaggio è stato disegnato proprio alla stregua di un caso pressoché psichiatrico di Disturbo Narcisistico di Personalità.

Ma nel contesto Boris questa caratterizzazione si fonde con l’ironia e il tono costantemente parodistico della serie per smorzare i toni di tutte le storie che si avviluppano attorno ai personaggi. E infatti se li analizzassimo così seriamente scopriremmo che, aldilà dell’evidente esagerazione caricata su ognuno di essi, ogni protagonista di Boris potrebbe essere un caso di studio.

Stanis ci ha colpito perchè la sua figura è controversa. Nonostante il suo approccio decisamente sopra le righe risulta spesso e volentieri portatore di verità che non hanno troppo dell’assurdo dietro.

La sua battuta più famosa, quella sui toscani, è una frecciatina piuttosto pungente alla comicità da bar che ha caratterizzato per anni il panorama televisivo e cinematografico italiano. Non ce ne vogliano i toscani – che sono stati utilizzati solo come esempio da parte degli sceneggiatori – ma non possiamo non riconoscere la genialità di questa sottile critica alla comicità italiana dei decenni passati di cui Stanis, nella finzione e forse senza capirne il vero significato, si fa portavoce.

Una comicità che ha puntato molto sui dialettismi regionali e su un’espressività casereccia, sacrificando spesso la finezza e la profondità che il ruolo del comico può assumere sull’altare della commercializzazione. Ovvero del meccanismo che permette di arrivare “ai più” parlando alla pancia del paese a scapito di una qualità che magari risulta meno immediata all’italiano medio che in quegli anni rideva di stereotipi.

Boris è conosciuta per la sua straordinaria capacità di prendersi gioco di tanti sistemi e ambienti italiani con una finezza mai vista prima in tv. Ne avevamo parlato anche qui nella spiegazione del suo finale.

Boris

In questo caso ha usato Stanis per muovere una critica non solo allo stato più tradizionale della comicità italiana, ma alla generale decadenza che ha caratterizzato produzioni televisive e cinematografiche degli ultimi anni. Il tipico “troppo italiano” con cui Stanis apostrofa colleghi, registi, sceneggiatura, riprese e ambienti ogni qualvolta ne abbia l’opportunità, ha una triplice funzione. Non solo è espressione – assieme a molte altre – dello Stanis divo, altezzoso e pieno di sé da inguaribile narcisista, ma fa anche duplice ironia su ben due categorie degli artisti italiani.

Quelli che appunto si sono rifugiati per anni e in modo quasi barbaro nell’italianità più sfrenata defraudandola dopo un po’ del suo spessore originario, e quelli che esagerano in senso opposto. Quelli che per sfuggire da quello stile preimpostato “molto italiano” rifiutano a prescindere tutto ciò che vi possa anche solo lontanamente somigliare rifugiandosi nella “sicurezza” della poetica straniera. Una poetica che solo per il fatto di essere non italiana di nascita dà a questi novelli esterofili certezza di qualità.

Stanis in quanto divo di scarso talento dedito a una ricercatezza di cui non può cogliere i tratti reali, risulta il soggetto perfetto per rappresentare il ponte tra le due categorie prese in giro da Boris.

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È il tipico soggetto alla ricerca di qualcosa di alternativo che finisce per costruire il suo limitato castello di sogni grazie alla cosa più italiana che possa esserci: una fiction di quelle classiche della televisione nostrana. Di quelle dalla trama trita e ritrita, costruita su fondamenta di mediocrità per piacere al grande pubblico. Lo stesso che non vuole riflettere troppo quando è davanti alla tv e ama vedere un “semibelloccio” far la parte del buono.

E l’idea di fare da protagonista in un contesto simile è un’occasione più ghiotta della ricercatezza del cinema d’autore “davvero poco italiano” in cui uno come Stanis non potrebbe comunque infilarvisi nemmeno se volesse davvero. Perché le certezze di cui è rivestita la sua appartenenza alla figura del Dottor Giorgio ne Gli Occhi del Cuore è qualcosa che va ben oltre i soldi che rende la tv, gli autografi e l’amore degli over 65. È la terra ferma e stabile sotto i piedi di un uomo che affida gran parte della sua autostima al suo ostentato conto in banca e ai tanto millantati avvocati di cui dispone.

Un uomo che se preso sul vivo delle sue lacune umane e personali crolla e non riesce ad andare avanti.

Come notiamo nell’episodio in cui Karin lo umilia sul set dopo una scena di passione non andata benissimo. Scene simili potrebbero essere veri e propri momenti di fuoco per un attore patologicamente narcisista e sicuro di se stesso. Eppure il dubbio sulla passionalità e la virilità che un simile soggetto dovrebbe trasudare, lo porta a sgretolarsi su se stesso come accade a chiunque abbia costruito su una maschera un’immagine di se stesso che non esiste.

Questa è la parabola di Stanis La Rochelle. Tra l’insicurezza dell’uomo e la volatilità della fama.

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