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La terza stagione di Twin Peaks ci ha catapultati in un nuovo universo emozionale

Una premessa è d’obbligo. Prima di guardare Twin Peaks io non conoscevo nulla di David Lynch. Nel senso: conoscevo il nome, e sapevo che era un regista\sceneggiatore completamente fuori dagli schemi. Ma nient’altro. Dopo aver visto le tre stagioni di Twin Peaks, ed essermi informato un minimo, so qualcosa in più. Ma qualcosa in più significa poco più che niente. Alcuni miei amici e colleghi che invece Lynch lo conoscono bene, mi avevano avvertito: la poetica lynchiana è qualcosa di a se stante, e per comprendere decentemente le sue opere devi guardarlo e ri-guardarlo, studiarlo e ri-studiarlo, leggere e ri-leggere cose su di lui. Ci credevo fino a un certo punto, da ignorante pensavo: “Sì, sicuramente avranno ragione, ma in fondo che sarà mai, sarà di più difficile lettura ma alla fine della visione di Twin Peaks sarò ad un buon livello di conoscenza e comprensione”. Niente di più sbagliato. Avevano ragione in pieno, e alla fine della visione delle 3 stagioni di Twin Peaks mi rendo conto che per capire appieno Lynch mi ci vorrebbero dei corsi universitari.

Tutto questo è per dirvi che no, in questo articolo non parlerò della terza stagione di Twin Peaks provando a dirimere questo o quel punto oscuro, questo o quel mistero irrisolto. Non analizzerò nel dettaglio la questione dei doppelganger, delle varie logge, delle infinite dimensioni, del mix reale-onirico eccetera eccetera. Non proverò nemmeno a spiegarvi il finale (lo ha fatto bene il mio collega in questo articolo). Non lo farò in primis perchè non è questo il mio obiettivo, in secundis perchè di fatto non saprei cosa dirvi senza risultare impacciato come un bambino di 3 anni che prova a guidare uno scooter.

Voglio provare semplicemente a condividere le mie sensazioni su una stagione che ha superato completamente le mie aspettative. Come un profano insomma, che non ha nessuna intenzione di intaccare la sacralità lynchiana e per questo non si addentra nemmeno più di tanto in congetture.

Partiamo dal principio, e dalle famose raccomandazioni che le persone con un alto grado di conoscenza di questo autore mi avevano fatto, e alle quali avevo reagito con parziale scetticismo. Uno scetticismo che non si è del tutto placato dopo la visione delle prime due stagioni. Sì, nei primi due capitoli Twin Peaks evidenziava alcuni elementi di stranezza, a tratti completamente deliranti per chi si approccia per la prima volta al mondo di Lynch, ma manteneva comunque una linearità visibile. Era al contempo sinistra e rassicurante. Pian piano ti faceva entrare in empatia coi personaggi, perfettamente caratterizzati sebbene non dotati di grande profondità, e ti faceva vivere dall’interno quel mondo tetro, avvolto nel mistero ma anche amichevole, divertente, familiare. La trama scorreva sulla base di alcuni canovacci standard che per dritto o per storto arrivavano a una loro coerente e logica risoluzione, logica ovviamente relativamente a quell’universo. Insomma, anche le parti apparentemente più fuori di testa e incomprensibili si arrivavano in qualche modo a comprendere. Si riuscivano a mettere insieme i pezzi.

Ho scoperto poi che quello non era il vero Lynch: costretto a piegarsi alle logiche di produzione basate sul fatto che il pubblico generalista avrebbe abbandonato la serie, se il regista avesse osato più di tanto, quest’ultimo era rimasto imbrigliato in degli schemi che non gli appartenevano. Il risultato è stato comunque quello di aver creato una serie che ha fatto scuola, un capo-lavoro nel senso pieno del termine al quale si sono ispirate anche tante serie tv dell’epoca moderna (ne abbiamo parlato dettagliatamente in questo articolo), col pubblico di ieri e di oggi che ne è uscito pienamente soddisfatto. Chi non è uscito soddisfatto invece è proprio Lynch, che per una manciata di lustri ha covato, fino ad arrivare all’esplosione di The Return, nel 2017.

Un ritorno che era stato preannunciato da Laura Palmer nell’ultima puntata della seconda stagione, con quel ‘Ci rivedremo tra 25 anni’ detto a Dale Cooper e mediante Dale, detto a tutto il pubblico. Era una promessa, una dichiarazione d’intenti. Twin Peaks non sarebbe finita come volevano loro. Sarebbe finita come voleva Lynch.

In molti hanno criticato la terza stagione di Twin Peaks argomentando la loro opinione con la semplice asserzione che, di fatto, non era più Twin Peaks. Non c’era più quella familiarità, quel vissuto dello spettatore all’interno di quel microcosmo rassicurante, non c’era quasi più niente di quanto era andato in onda 5 lustri prima. I vecchi personaggi, escluso Dale Cooper, erano ridotti a fugaci comparse. E lo stesso Dale Cooper non era più lui.

Il che è vero, ma a mio parere non è assolutamente qualificabile come difetto. Tutt’altro. Se Lynch avesse ripreso le fila della vecchia Twin Peaks senza cambiare nulla, ambientando tutto nella consueta cittadina, coi soliti personaggi, i soliti canovacci e i soliti misteri da risolvere, questo ritorno avrebbe avuto un sapore veramente stantio. Sarebbe stata una banalissima operazione nostalgia per tirar su qualche vagonata di milioni, sfruttando il nome della vecchia serie. Lo hanno fatto in tanti, accontentando un pubblico incontentabile, che puntualmente ha criticato aspramente la minestra riscaldata. Non lo ha fatto Lynch, ed è stato criticato per non aver riproposto la minestra riscaldata. Non ci va davvero mai bene niente.

Lynch è riuscito invece nell’intento di spaziare, aprendoci nuovi mondi e regalandoci nuovi modi di rimanere straniti, spaesati, terrorizzati. Perchè Twin Peaks, sia nelle prime due versioni che nell’ultima, riesce a fare una cosa che non riesce a fare più nessuno: fa veramente paura. La parola horror è ormai abusata, banalizzata nel suo sovrautilizzo, ma per Twin Peaks è sempre tremendamente calzante. In ogni epoca, in ogni versione, in ogni dimensione. In ogni anno.

L’assenza di linearità e di logica apparente in Twin Peaks 3 – The Return permettono allo spettatore di viaggiare dentro se stesso. Senza un filo conduttore da seguire, è diventato necessario affidarsi alle proprie sensazioni. A cosa ti provocava questa o quella scena a livello interiore. Con l’ultimo capitolo, Twin Peaks ha acuito il suo status di esperienza sensoriale, ma nel senso pieno del termine.

Riportare in vita un universo sepolto 25 anni prima non era affatto uno scherzo. Come detto, il rischio di ricadere nell’imbarazzo della riproposizione stanca di clichè, era tangibilissimo. Lynch è riuscito a dribblare questa empasse dando pieno sfogo al suo genio creativo. Approfondendo il discorso solo accennato delle logge, ampliandolo e rendendolo più astratto e complicato a livello logico, ma al contempo più concreto e pieno sul piano sensoriale.

Non ha poi tralasciato la parte classica e più normale, per quanto inizialmente potesse sembrare il contrario. I vecchi e rassicuranti personaggi sono chiaramente più marginali, ma non trascurati come qualcuno ha sostenuto: sono semplicemente proposti in maniera più discreta nell’evoluzione delle loro vite. Vite normali e senza particolari squilli di tromba, dopo il delirio successo 25 anni prima che comunque ha segnato in maniera indelebile soprattutto alcuni di loro. Come quella Audrey Horne che ancora non abbiamo capito in che stato versi.

E poi, la terza Twin Peaks ci ha regalato un divino Kyle MacLachlan. Se nelle prime due stagioni avevo amato il personaggio ma non mi aveva impressionato l’attore, in quest’ultima ho amato alla follia entrambi. O per meglio dire, tutti e 4: l’attore e i tre personaggi. Kyle ci ha fatto viaggiare in una serie di dimensioni interiori ed esteriori, riuscendo a interpretare in maniera splendida tre versioni di se stesso: Dale Cooper, Bad Coop e Dougie Jones. Tutti e 3 meravigliosamente sfaccettati, ma la novità assoluta, Dougie, è quello che più si è preso la scena. MacLachlan si è reso protagonista di una prova attoriale mastodontica col personaggio di Dougie, riuscendo a trasmettere un’infinità di emozioni anche solo con la leggera inflessione di uno sguardo o di un gesto, compresso all’interno del suo stato catatonico. Inoltre, Dougie ha rappresentato al contempo una linea comica maestosa, nel suo essere tristemente grottesco.

Insomma, secondo me Twin Peaks 3 non meritava questo semi-flop a livello di ascolti e non meritava tutte le critiche che ha ricevuto. Non le meritava anche semplicemente per il gran finale, che ha rappresentato la parziale chiusura di un cerchio. Parziale, perchè la realtà è che da questo cerchio non si uscirà mai. Non ne usciranno mai Dale Cooper e Laura Palmer, e noi con loro. Il ritorno di Laura nell’ultima puntata è stato un autentico coniglio dal cilindro. E il suo urlo straziante con cui si conclude la stagione è una delle cose più intense e terrorizzanti che abbia mai visto in tv.

Twin Peaks 3 non è più Twin Peaks, è vero. E’ una serie a se stante. Anarchica, entropica, caotica. Ma anche particolarmente altruista. Perchè nel suo caos e nella sua apparente assenza di empatia, ci ha fatto provare emozioni allo stato brado. Emozioni nostre. Non condivise con dei personaggi e rielaborate tramite essi, ma completamente nostre. E in giro non c’è niente di vagamente simile.

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