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Twin Peaks: soltanto il tempo avrebbe potuto riaprire la Loggia

I-NE-SI-STEN-TE!

Tale è tutto ciò che perde vale identitario, che viene dimenticato come una stanza vecchia 25 anni e il cui varco si è confuso nella profondità del tempo.
Inesistente è tutto ciò che non ha lasciato un’identità irripetibile, e che si sforza di ripetersi ed eguagliarsi.
Twin Peaks è tornato invece per esistere (e-si-ste-re, come piacerebbe scandire alla già tanto chiacchierata “evoluzione del braccio”), di nuovo, senza ripetersi ma per ripetere la storia rinnovando paradigmi.
Il promiscuo e prevaricatore (nel bene e nel male) universo di Lynch si è servito dell’invecchiamento come espediente narrativo oltre che mediatico, riattivando un prezioso ciclo tenuto a sedimentare, tornando a decontestualizzare la “serie televisiva” intesa come modello, e abbracciando la realtà con quel beffardo mezzo metanarrativo della ciclicità che muove le leggi temporali della Loggia, grazie al quale tutto esisteva nel 90 e tutto esiste oggi, nel 2017, contemporaneamente.

È questa la chiave di lettura più pertinente dell’avvio controverso di Twin Peaks, sancito dai primi due episodi: la ripetizione intesa come circolarità, surreale coesistenza, anche e soprattutto nel non-consequenziale percorso di crescita artistica di David Lynch.
Diventa inevitabile conoscere il deus-ex dietro il sipario di velluto (blu, non solo rosso), per recepire la natura autoriale e simbolica di Twin Peaks.
Perché è risaputo che, come un’ombra che noti con la coda dell’occhio, Lynch più di ogni altro artista si presenta come sfuggevole soggetto principale delle sue stesse opere, col chiaroscuro del pensiero inconscio, e il sempiterno interrogativo sulle segrete profondità insite del colore rosso.
Ricordandoci che a volte un’ellissi temporale non basta per la maturazione di un’idea; servono 25, lunghissimi, anni.

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Il Ritorno – Parte 1 e 2: LA SENILITÀ DELL’INNOVAZIONE

Anche le novità invecchiano, ed è un processo irreversibile. Perfino l’innovazione stessa è fondata su un principio di inflazione latente, che necessita delle radici del “comune” perché se ne possano rompere gli argini.
Nel mondo di Lynch tutto esiste già (da qui il principio di surreale coesistenza), le idee sono una monade non scomponibile e utile a spiegare il tutto attingendo da esse, come fossero parte del mondo iperuranico di Platone; la gelosa “raccolta” di nozioni e significati. Un contenitore, o per meglio dire una stanza.
Insomma, una Loggia.
Risulta così più facile e sintetico spiegare il perché di tanto rifacimento e autocitazionismo: il percorso artistico di Lynch potrebbe semplicemente non essere lineare.
Il suo pensiero è trasversale e la non consequenzialità domina tanto il reale quanto quella finzione che lui nemmeno ama definire tale.
Molto più semplicemente, Lynch potrebbe non aver attinto dalla sua filmografia per allestire un’opera che ad un occhio eccessivamente critico può sembrare priva di idee, potrebbe bensì aver attinto – per tutta quella che è stata la sua filmografia a seguito degli anni novanta – dallo scrosciante flusso meditativo di idee destinate a Twin Peaks, che nel lontano ’90 fu ostruito.
L’autoreferenzialità nella nuova stagione non è narcisistica, bensì ad opera di riscatto, ed è utile a decodificare il pensiero celato tra le intercapedini del nevrotico concetto di “perturbante”, da sempre perno centrico del suo lavoro e che affonda le radici nella sua arte, quindi in un antefatto perfino precedente al cinema, come lui stesso afferma nel film biografico “David Lynch – The Art Life”.

È più semplice pensare che Lynch stia delirando, invecchiando, e che le sue ossessioni abbiano oscurato la cognizione di causa.
Molto più semplice del pensiero realista che all’imprescindibile avanzare del tempo consegua l’inamidata volontà di non venire dimenticato, di non veder sfumare il proprio pensiero per non averlo espresso come avrebbe voluto: la necessità di rinnovare l’idea in forme e convenzioni diverse per non morire mai, e spiegare tutto ciò che avrebbe voluto “dipingere” (la sua prima, vera passione) in Twin Peaks e che, non avendo potuto farlo, ha riprodotto nei suoi film.
Oggi ne ha l’occasione, e per farlo ha bisogno di parlare di ciò che esiste e che è esistito nell’impero della sua mente. Nel suo inland empire.

All’affabilità della nostalgia, nei primi due episodi, si contrappone quindi un’atmosfera ai limiti richiesti dell’hard-boiled noir, con colori nettamente più freddi rispetto a quelli tipici della serie, e immancabili visioni lisergiche tipiche della filosofia surrealista lynchiana.
Prima fra tutte è lo scambio di battute tra il Gigante e Cooper, in una Loggia dai cupi filtri grigiastri, che vede il primo introdurre quasi da narratore diegetico il tema del “doppio”, rifacendosi alla citazione del Mystery Man di Strade Perdute nell’icastico dibattito tra istanze psichiche: «Lui è a casa nostra in questo momento».


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Il tema del doppio viene così inoltrato, e rafforzato dalla visione a due tempi bizzarra (dal lato estetico) e glaciale del doppelganger di Cooper (una “simpatica” crasi tra Sailor Ripley di Cuore Selvaggio e Fred Madison di Lost Highway), che si discosta dall’impeto, dalla spasmodica e delirante violenza fine a sé stessa tipiche della possessione di Bob.
Il doppio di Cooper dà l’idea di essere presenza autonoma e funzionalista, di una malvagità necessaria al raggiungimento di un fine ecumenico e meno trascendentale (quale è la ricerca di Garmonbozia di Bob come famiglio di Mike).
Ad indicare a sua volta questa sorta di autonomia non è un indizio, bensì la mancata occasione di fornirlo: il doppio di Cooper, nonostante le svariate opportunità, non viene mai ripreso allo specchio (elemento fondamentale della poetica/estetica di Lynch) per mostrare le fattezze riflesse di Bob (impresa possibile con un minimo lavoro di cgi), nemmeno quando viene mostrato con camera defilata mentre lava le mani in bagno, dopo aver ucciso Darya.
Ad occupare un ruolo primario nelle scelte tecniche, è il laconico soffermarsi sui solchi del tempo, sul deterioramento crudele della giovinezza, e sul continuo “giocare” con i tratti di invecchiamento degli attori e pertanto dei personaggi.

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Il tempo sembra “macchiare” perfino i luoghi.
La Loggia ci appare più plastica, goffa e “in vista”, quasi priva di mistero.
Rende anche perplessi la mancanza di retroilluminazione delle tende, che risultano quasi finte.
Di un luogo che non è ostaggio del consunto, libero dalle logiche del tempo e dove questo è effimero quanto lo spazio, questa non può che essere solo la semplice visione di Cooper: viviamo la Loggia attraverso la soggettiva del non-più-bonario agente dell’FBI, quella di chi vi è prigioniero da 25 anni e che ha perso l’assuefacente interesse e stupore in essa; quella di chi ha fatto dell’abitudine i propri anticorpi.
La dilatazione spazio temporale che avviene nella Loggia è quindi l’oggettivazione di un confronto tra Es, Io e Super Io freudiani che portano ad una visione “necessariamente surrealista” al fine di essere percepibile (un aspetto fondamentale, questo, per comprendere in maniera più aperta e meno scettica il valore estetico delle immagini oniriche, alle quali arriveremo tra poco).
La stessa mancanza di retroilluminazione delle tende diventa simbolo di mancanza di spiraglio conoscitivo (la luce vista come conoscenza, verità appunto platonica, come ci ricorda il mito della caverna), ora che per Cooper la Loggia è quasi priva di segreti.

Tenendo fede al nome originale, i “segreti” nella nuova Twin Peaks ci sono eccome, e seppure con clima diverso riescono ad intrecciarsi eterogeneamente alla buona dose di comicità/goliardia, che esplodono nella sequenza della vicina di Ruth (l’”abbondante” donna col suo cane), i dialoghi tra Ben e Jerry Horne, o i sempreverdi interventi di Andy e Lucy, anche quelli costituiti da lunghi e imbarazzanti silenzi.
In riferimento ai segreti, quindi agli indizi, ne sono parsi di più o meno volontariamente espliciti, a partire da quello del Gigante.
Il “4-3-0. Richard e Linda, due piccioni con una fava”, azzardando una folle teoria (quanto deve essere realmente folle una speculazione nel mondo di Twin Peaks per superare il limite?), potrebbe essere un criptico modo per suggerire una coordinata, quella che a Cooper potrebbe servire per identificare il varco dimensionale della Loggia e che, con molta probabilità, il suo doppelganger sta cercando ossessivamente. “Richard e Linda” potrebbero essere lettere anagrammate che, insieme con 4-3-0 formerebbero una coordinata. Da qui l’uso simbolico del detto “due piccioni con una fava”, come a sottintendere un’unione.
Nella scena in cui il doppio di Cooper cerca le coordinate della prigione al computer, nella barra di ricerca viene digitato questo codice alfanumerico che corrisponde appunto a una coordinata, e che dati i caratteri sarebbe in linea con il rapporto lettere/numeri del messaggio “4-3-0 Richard e Linda”.

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Altro elemento puramente simbolico e ricorrente nella letteratura di Lynch, collegato alla sequenza di numeri, è il numero 7 associato alla sacralità e, in questo particolare caso, all’esoterismo in senso generale (4+3+0=7; o ancora il numero della camera accanto a quella del doppio di Cooper, dove si reca dopo aver ucciso Darya).
I segreti lanciati nell’ordalia dei primi due episodi sono tanti, e le suggestioni forse ancora troppo poche, ma tra queste l’interrogativo più grande è probabilmente l’identità del “milionario” che tiene sotto monitoraggio il varco/scatola di vetro: con molta probabilità, l’identità è legata all’uomo che serve denaro al suo scagnozzo, il quale pronuncia “Dille che il lavoro è suo”, lasciando intendere che stia procedendo per la sostituzione del ragazzo precedentemente addetto, causa la sua recente morte (l’umanoide che salta fuori dalla scatola di vetro potrebbe aver sfruttato l’apertura del varco causata da Cooper).
Ma di chi faccia le veci l’uomo dietro la scrivania è il vero quesito: troppo semplice si tratti del doppio di Cooper; inverosimile si tratti del Dr. Jacoby, che seppur paia tramare qualcosa non rispecchia esattamente il profilo del miliardario; possibile si tratti di un progetto governativo comandato dal Maggiore Briggs (il quale potrebbe essere collegato alla questione ufologica accennata nel libro di Mark Frost “Le vite segrete di Twin Peaks”), il quale nell’episodio viene anche associato alla questione delle coordinate; molto suggestiva la possibilità che possa trattarsi di Audrey Horne, intenta a ritrovare l’amore impossibile Cooper e che rientrerebbe perfettamente nel profilo della figura miliardaria (nonostante ciò la discosterebbe dal collegamento con l’uomo dietro la scrivania, in quanto pare che questo si riferisca al suo superiore usando il maschile).
La scomparsa di Cooper nel vuoto cosmico dello spazio ci lascia aperta una suggestione: potrebbe addirittura essere lui stesso ad aver fornito le coordinate sulle quali mette mano il Maggiore Briggs nella serie originale.

Ma se troppe cose sono ancora celate, le dinamiche della Loggia nell’universo di Twin Peaks sono ora più chiare anche a noi, che scopriamo il baratto esoterico richiesto perché Cooper torni nel mondo sensibile.
La suddetta “necessità del surrealismo” nella poetica di Lynch è un’importante retorica da tenere a mente quando risulta difficile la sospensione dell’incredulità al lavoro di cgi: come l’uomo che ricorre alla religione per spiegare la complessità, allo stesso modo l’artista si avvale del virtuosismo per spiegare l’ineffabile.
Così il regista tenta di illustrare il surreale con iperrealismo, avvalendosi del virtuosismo per rendere il percepito quanto più prospettivamente e stilisticamente “vero” possibile. Eppure, nella percezione dello spettatore, il risultato è giammai ottenuto a causa della familiarità del percepito, che non crea distorsione cognitiva e abbraccia canoni ritenuti sì controversi, ma che rimangono propriamente, appunto, canoni.
In Twin Peaks ciò non ha modo di accadere mai, grazie all’interpretazione meno canonica che la letteratura di Lynch offre di “perturbante”: una visione lisergica è tale perché non solo è distorta, ma quasi rattoppata, prospettivamente scorretta, talvolta “incollata” sullo schermo come alla mente razionale risulterebbe difficile percepire nel reale. Come nemmeno il pensiero laterale si aspetterebbe di affrontarla.
Ci prostriamo con un’apertura viscerale al refrain dissacrante di Lynch e ne siamo avidi, demoni inconsapevoli che bramano la sua Garmonbozia, vittime compiaciute di un miasma visivo traumatico.

Che a questa terza stagione servisse del tempo era palese, e oltre i contrastanti sentimenti di compiacimento e delusione esiste un happy ending che non può che mettere d’accordo: sta accadendo di nuovo.
Twin Peaks è ancora là fuori, vigile e in attesa.
Spettrale ed evocativa, “filled with secrets”, come una candela che balugina alla finestra di una casetta di tronchi, echeggiando nel sentiero di un bosco oscuro che ne fa da guardia.
Una matriosca di misteri; un insieme di pensieri racchiusi in una Loggia troppo lontana dal mondo per essere profanata.
Una struttura utile a dimostrare che i sogni, le idee, esistono in un mondo fuori dalla nostra mente, ermeticamente preservati e solo solleticati dal pensiero.
È per questo che sono destinati a sopravvivere, i sogni, anche dopo 25 anni.
Anche se “e-si-sten-ti” altrove.

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