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Niente sarà mai come Twin Peaks

L’ingresso sensazionale nella coscienza di massa che ha avuto Twin Peaks di David Lynch e Mark Frost 32 anni fa, è stato un evento che sfida la replica. Per cominciare, a quei tempi c’era effettivamente una coscienza di massa, o almeno, c’erano molte persone che guardavano gli stessi spettacoli allo stesso tempo. Nessun Netflix nel 1990. Nessun consiglio di visualizzazione personalizzato. Solo le fauci, perennemente incandescenti dell’immaginario popolare, in cui, lussuriosa e segreta come una coltre di nebbia,  si trovava Twin Peaks, con il suo inedito stufato di occultismo, ironia, orrore, impassibilità, soap opera, narrativa, logica dei sogni e postmodernismo. L’episodio pilota della Serie dava la sensazione di un’iniziazione.

Come se alcune delle più sordide tradizioni ermetiche si stessero diffondendo verso l’esterno, saturando i lobi frontali del pubblico. “È mor-ta”, balbetta Jack Nance, operaio della segheria di Pete Martell, al telefono. Con gli occhi sbarrati e pieno di panico, ottenendo una torsione tanto spaventosa e distorta dei suoi suoni vocalici da essere in se stessa, cifra stilistica della forza dell’intera Serie: “Avvol-ta nella plas-tica”.

Twin Peaks

Chi era morto? Chi era stato avvolto nella plastica? Perché? Laura Palmer, ovviamente. La tipica “ragazza-alfa”. Quintessenza della virtù. Luce degli occhi della comunità. La comunità in questione è la città di Twin Peaks: popolazione 51.201 abitanti. Arroccata nel nebbioso nord-ovest. Laura Palmer, bagnata sul bordo del fiume nel suo sudario di lastre industriali, sembrava stranamente trasmutata: il suo viso era di un blu argento metallizzato, composto in un’espressione di serenità vestale. La sua fronte era punteggiata di scintillanti minerali di fiume. In sottofondo, il rumore della nausea, quegli accordi ormai indimenticabili di Angelo Badalamenti. Il tocco della regia di Lynch è suadente ma deciso. Onirico e iper-realista al tempo stesso. Un paradosso visivo che scuote il pubblico.

E ora, il quarto di secolo che intercorre è stato, a quanto pare, un semplice “bip”. Una rapida interferenza di energia elettro-statica Lynchiana sullo schermo. Twin Peaks è tornata per una tardiva terza stagione con molti dei protagonisti del cast originale e timonata ancora una volta dallo sceneggiatore e regista Lynch e dallo scrittore Frost. È volgare interrogarsi sull’impulso creativo che sta dietro questa resurrezione, ma da qualche parte là dentro, sicuramente, c’è la sensazione che sia stata partorita e desiderata fin dalla prima volta, fin dal principio. Twin Peaks ha dominato il 1990.  Era la Serie Tv da vedere per un pubblico globale che includeva, financo, la regina Elisabetta II.

Poi è caduta in pezzi, nel 1991, soppiantata come (triste) spettacolo dalla Guerra del Golfo e azzoppata artisticamente dalla sua stessa entropia interna, dalle trame intricate, dalle oscillazioni tonali e da alcune cattive idee dei produttori. Presagi fuori controllo di ciò che oggi riconosciamo come  i sintomi di una Serie Tv di lunga durata che entra nella sua fase decadente. Anche in questo Lynch è stato precursore.

Twin Peaks

Ma dobbiamo essere chiari: senza Twin Peaks, metà delle Serie più in voga oggi, semplicemente, non esisterebbero. L’idea stessa di una Serie unica, romanzata in modo concatenato, con una struttura profonda che si estende “all’indietro” nel cervello dello spettatore, non era semplicemente pensabile prima di Lynch e Frost. Con Twin Peaks hanno effettivamente rinegoziato il contratto della Tv con il proprio pubblico. Non si era sintonizzati su questa Serie nello stesso modo in cui si guardava Magnum P.I. o La signora in giallo. La regia dietro Twin Peaks ti costringeva a sintonizzarti “psichedelicamente“, per così dire, pronti per essere trasportati “altrove“. O la guardavi o non la guardavi; o eri dentro Twin Peaks o eri fuori: una decisione binaria.

Gli archi narrativi, le curve di sviluppo dei personaggi, erano lunghi, più lunghi dello spettacolo stesso, sfuggenti al mistero. Se si perdeva un episodio, si era disorientati. Se si guardavano con attenzione, si era comunque disorientati. Sorprendentemente, questo è diventato qualcosa di simile alla normalità. É diventato paradigma.

Così il dramma di Twin Peaks si svolse su due piani: quello che avveniva nello spettacolo, “chi ha ucciso Laura Palmer?” e poi, più subliminalmente, quello che lo spettacolo stava facendo alla televisione stessa. In entrambi questi aspetti avveniva lo stesso processo: un incauto privilegio dell’irrazionale, del notturno e una spinta a vedere fin quanto potessimo “andare oltre“. Guardando oggi nuovamente l’episodio pilota ci si meraviglia di quando Lynch, il maestro, il pazzo, carichi ogni fotogramma con materiale preconscio, su un sfondo labirintico sovrastato dal ruggito del fiume.

Soffermandosi poi su uno spettrale dettaglio di un ventilatore da soffitto fino a far ruotare la telecamera intorno alla stanza. Una vera e propria pressione trans-dimensionale, come qualcosa di sinistro e non accomodante che spinge per entrare. Un nuovo tipo di tensione: diffratta, solo in parte reale.

Twin Peaks

L’agente speciale dell’FBI Dale Cooper, interpretato da Kyle MacLachlan, arriva a Twin Peaks con il suo stile, la sua purezza, il suo gusto per l’extraterrestre e per tutte le cose materiali che solleticano i sensi: “Uomo, odora quegli alberi. Senti gli abbozzi di Douglas!“. Lavora in modo procedurale e preciso, la sua mascella splende nobilmente, cavaliere senza paura di “donchisciottiana memoria“. Contestualmente però crede che la soluzione al mistero della morte di Laura Palmer gli sia stata consegnata in un sogno. Un sogno con un piccolo uomo vestito di rosso, che parla con mezze parole sbiascicate, con sottotitoli, se solo si riesce a interpretare correttamente il sogno. Lynch osa. Osa, per citare il Macbeth di Shakespeare, tutto ciò che è degno di un uomo.

Stilisticamente, l’effetto postumo più immediato di tutto questo può essere riconosciuto nell’atmosfera gnostica di X-Files, ma ci sono schegge scintillanti di Twin Peaks anche nello sfrenato tripudio del deserto di Breaking Bad. Nell’inverosimile, invalidante sogno di Bran Stark in Game of Thrones. Nell’assurda trama di spirali e contorte sovrapposizioni temporali di Lost. I Soprano rendevano omaggio agli stati della fuga cooperativa dell’agente Cooper e ai colpi di alberi che soffiavano nel vento, increspandosi nella loro pienezza e stranezza. E come viene finalmente comunicato a Tony Soprano, dopo anni di sospetti repressi, che Big Pussy (uno dei suoi più fidati aiutanti) lo sta vendendo all’FBI? Con un pesce parlante, in un delirio, dopo un brutto vindaloo di pollo. Non c’è nulla di più Twin Peaks di così.

Twin Peaks

Poi c’era la garmonbozia. In “Twin Peaks: Fuoco cammina con me”, il tanto disprezzato prequel cinematografico che Lynch ha realizzato dopo la fine della Serie classica. Il piccolo uomo con la giacca rossa si apre di nuovo e fa uscire qualcosa che viene sottotitolato come… garmonbozia. Rappresentazione fisica del dolore e della sofferenza. Qualche istante dopo, lo vediamo in un orribile primo piano, mordicchiando un cucchiaio di qualcosa che assomiglia a crema di mais. Calandoci nella profonda stranezza della regia di Lynch quasi ci stupiamo del didascalico significato di tutto ciò: il piccolo uomo vestito di rosso e i suoi compagni del regno dei sogni hanno un gusto per la sofferenza umana, che chiamano garmonbozia e che consumano sotto forma di un viscoso, perlescente distillato psichico.

La regia in Twin Peaks è un inno alla narrazione della oscurità. Anzi, come bene viene mostrato nell’episodio 03×08 “This is the chair” ci porta nel nucleo stesso dell’oscurità con una sequenza interminabile di scatole cinesi e interferenze che scendono sempre più all’interno della nube atomica fino al cuore stesso del male. Immagini schizofreniche e suoni per minuti. Il tempo stesso perde di significato come osservando un quadro astratto nel quale lo scorrere dei minuti svanisce nella desolazione di ciò che osserviamo.  Poi il mare. Un mare duro, scuro, agitato. Uno scoglio di roccia sul quale si erge una costruzione.

L’inquadratura procede inesorabile verso essa. Un omaggio e al tempo stesso una reinterpretazione della regia di Kubrik, soprattutto del capolavoro “2001 Odissea nello Spazio“. Infine, in una fessura del muro, la telecamera procede fino a fermarsi di colpo nel silenzio assoluto di una stanza. Quasi ci aspetta di trovare il monolite nero. Invece siamo alle origini del “male“.

Twin Peaks

Questa è la spina dorsale della trama e la cifra narrativa. Per tutti i suoi capricci, Twin Peaks, la cittadina, era piena di garmonbozia, di dolore, di sofferenza. Gli spettatori, infatti, non avevano mai provato qualcosa di simile sul piccolo schermo.

Chi conosce i lavori di David Lynch sa bene che le sue opere sono caratterizzate da atmosfere surreali, immagini ipnotiche e totale assenza di linearità. Costringono lo spettatore a porsi domande, ad approfondire per capirne il senso. Molte delle interpretazioni non sono mai definitive, ma lasciate aperte. In ogni suo lavoro evoca l’inconscio, il mondo onirico, come spiega lui stesso:

“I miei film raccontano di strani mondi dove non puoi entrare a meno di non costruirli tu stesso, amo andare in questi strani mondi”

Non si può immaginare qualcosa come Twin Peaks senza questa cifra narrativa e stilistica. Non è la trama, non è la drammaturgia né la capacità attorale che definiscono quest’opera, ma è proprio la qualità della regia. Anche quando non è fisicamente Lynch dietro la cinepresa. Perché ormai la sua creatura vive in modo indipendente. Se si entra in Twin Peaks si entra con le sue regole. Per quanto assurde e oniriche possano sembrare.

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