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“Ma dove son finiti tutti quanti? Eravamo almeno venti. Almeno venti, e mi sembravano già tanti.”

Come bottiglie di vetro danzanti nel mare, colmi di inquinanti parole che non saranno mai all’altezza delle sensazioni, avanziamo con l’incosciente inerzia dell’infinito, in quella fase della nostra vita in cui è così facile non mettere in conto che se il vento è forte ci spinge al largo.
D’altronde, a 20 anni il mare aperto non spaventa.
A 20 anni gli istanti spirano e s’alzano come granelli di tempo, senza importanza, ed è meraviglioso ignorarli sia in due, mani dietro la testa sdraiati nella casetta in piscina a raccontarsi dimenticabili sofferenze, sia in cento, su una linea di sabbia che è fronte di addii, tra le feste in spiaggia di Orange County.
In quelle scure notti che raccolgono organi in cocci e schiuma di birra slavata.
Dove partono le bottiglie in mare. Dove, a 20 anni, iniziamo a prendere il largo senza saperlo.

The OC
The OC (640×360)

Di queste sensazioni The OC ce ne ha regalate tante, ognuna armata di quell’effetto retroattivo calcolato, di quell’anonima leggerezza che le rende fuggevoli, salvo tornare più mature e pretenziose quando ti guardi attorno, ora che si contano gli impegni. Adesso che in cento si è sempre troppi, e in due si è sempre troppo pochi. Adesso che The OC fa quasi più male che a vent’anni.
Ryan Atwood ci saluta così, disinvolto mentre accompagna penzoloni la sua 24 ore perfettamente abbinata all’abito che non credeva avrebbe mai indossato. Non quello di azzurro e nero cotone, ma quello fatto di sacrificio e titoli di studio che lo rendono oggi un architetto. Mentre si allontana dal cantiere chiude il cellulare, e distrattamente fa cadere lo sguardo sull’iconografia del suo passato: un giovane, a metà tra il triste e il rassegnato, siede su un muretto ai piedi di una cabina telefonica.

Pochi centimetri più in là, anche la ruggine sulla sua bici sembra raccontare il passato del protagonista di The OC.

In piedi di fronte al proprio passato è più facile riconoscere un animale notturno, anche in pieno giorno. Una volta che quei sentimenti sono tuoi solo da lontano, che ti somigliano soltanto nella sagoma, e diventano di qualcun altro quando sono a un palmo dal naso.

“Una canzone senza coraggio, un grande amore senza uno sbando, un’amicizia che si addormenta, una parola detta troppo in fretta.”

Quando non è più così facile cambiarsi l’anima per dimenticare, tutto torna vivido nella memoria solo per sottolineare quanto cambiato sia nella realtà. E quei dettagli, fatti di canzoni che sembrano raccontare chi sei e luoghi in cui bastava essere in due per non sentire freddo, sembrano estranei se rievocati di notte.
Perché gli animali notturni hanno sempre avuto troppo tempo per crearli, quei ricordi, e sempre troppo poco per contemplarli. Così pensiamo di notte, quando torniamo a capire cosa si prova quando non “si contano gli impegni”, e allora il ricordo non è oltraggio al tempo.
Perché possiamo farlo. Perché ritrovarci a riflettere da soli ci ricorda che non siamo più animali notturni.

“Ma dove son finiti tutti quanti? Mi sentivo bene, volevo urlarlo. Avevo il fuoco dentro al petto.”

In quel finale che racconta la vita di animali notturni in congedo, The OC ha avuto la profonda abilità di saper parlare contemporaneamente ai ragazzi che eravamo e all’adulto che ancora non sapevamo essere capace di provare nostalgia. E forse, tuttora, quelle canzoni che ci ostiniamo a vederci cucite addosso raccontano un sentimento che è più comodo fraintendere. Mentre ci aspettiamo di arrivare intatti in fondo al percorso, di trovare spazio in questo inferno o anche solo di esser ricordati, senza voler accettare che siamo “solo” un’altra storia.

The OC
The OC (640×360)

Eppure quanto è bello essere “soltanto” un’altra storia, senza la presunzione di essere raccontata?

Quanto è bello essere solo un racconto che qualcuno potrà forse ricordare, o forse no. Essere un attimo sospeso nella storia che soffre un malinconico e affascinante dubbio: quello di non essere mai più rievocato, eppure forse intimamente conservato.
Come la perpetua gentilezza nel gesto di un uomo che si rivede nell’animale notturno che fu.
Intimo e rispettoso, drammatico e dignitoso, come il messaggio che porteremo per sempre al largo.

Per non sentirci mai più soli. O, semplicemente, non sentirci mai più.