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Con l’uscita diThe Last of Us nel 2013 per PlayStation 3, Naughty Dog prendeva gli stilemi del survival horror e li fondava con una scrittura adulta, cinematografica, incentrata su antieroi e una morale profondamente ambigua. Joel ed Ellie non erano soltanto avatar da manovrare: erano vite da accompagnare. La loro odissea post-apocalittica era un campo emotivo prima ancora che narrativo. Dieci anni dopo, HBO ha raccolto la sfida.
La serie tv, firmata da Craig Mazin e dallo stesso Neil Druckmann (autore del gioco), non si limita a trasporre la storia, ma la rilegge, la espande, in certi momenti la tradisce persino, sempre con una consapevolezza autoriale che merita rispetto. Se il gioco era un’esperienza profondamente soggettiva, immersiva, la serie è spettatoriale, inevitabilmente, ma non passiva. Anzi, proprio nell’abbandonare l’interattività trova spazi di riflessione, approfondimento, e soprattutto un nuovo ritmo narrativo.
Là dove il videogioco si costruiva attorno all’azione e all’esplorazione, soprattutto per necessità ludiche, la serie può permettersi di rallentare. È in queste deviazioni che la serie riesce a emanciparsi dalla semplice funzione di adattamento, diventando un’opera autonoma, complementare al videogioco più che subordinata.
Naturalmente, ci sono differenze di registro che segnano profondamente l’esperienza e oggi vogliamo parlare di quelle più evidenti nella seconda stagione di The Last of Us, fino ad ora almeno.
1) L’intento di Abby

La seconda stagione di The Last of Us prende da subito alcune notevoli distanze rispetto al materiale originale. Lo fa in maniera molto netta e con unico intento: mettere al centro Abby. Nel gioco, infatti, l’introduzione vede una conversazione tra Joel e suo fratello Tommy, dove il primo rivela cosa abbia davvero fatto per salvare Ellie. Le sue mani sono sporche di sangue, lo sanno bene i giocatori e adesso anche Tommy, ed è con questa consapevolezza bene in mente che la storia ha davvero inizio. Il primo episodio di The Last of Us 2 sceglie, invece, di spostare il focus dal carnefice alla vittima, da chi ha compiuto l’omicidio a chi ne ha subito le conseguenze.
Ad aprire così la seconda stagione non è più Joel, ma Abby che, insieme ad altri compagni delle Firefly, piange le persone massacrate nell’ospedale di Salt Lake City.
Giurando vendetta sulla tomba del padre (anche se in questo punto della storia, lo spettatore non lo sa ancora), Abby inizia il suo viaggio in cerca di Joel, culminando, infatti, nei tragici eventi del secondo episodio. Nel gioco, Abby entra nella storia più avanti, in maniera apparentemente innocua, durante un’incursione dell’orda infetta. Le sue motivazioni e le sue alleanze rimangono un mistero fino a molto tempo dopo, tratteggiandola quasi più come un Boogeyman sotto steroidi. Lo show ha piuttosto deciso di evidenziarne l’umanità e vuole che si entri in empatia con lei, piuttosto che categorizzarla come semplice antagonista. Forse, anche per questo motivo, la sua rappresentazione sullo schermo è nettamente diversa rispetto al gioco. L’ammasso di muscoli è messo da parte, di fronte abbiamo una ragazzina fragile e piena di lentiggini.
Altra notevole differenza riguarda anche il modo in cui Abby uccide Joel. Nella serie, Abby usa una mazza da golf per picchiare Joel a morte, ma dopo un po’ Owen la implora di farla finita. A questo punto la ragazza, effettivamente, pone fine alle sofferenze di Joel con un’ultima pugnalata dritto alla gola. Cosa che nel videogioco non accade, dato che lì Abby continua imperterrita a massacrarlo con la mazza. Anche in questo caso, potrebbe sembrare roba di poco conto, ma che in verità la dice lunga sulla moralità grigia con cui i creatori hanno voluto infondere il personaggio di Abby.