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The Handmaid’s Tale 6×08 – Il tempo è poco, ma la svolta si fa ancora attendere

The Handmaid’s Tale 6

“Non avrebbero dovuto darci delle uniformi se non avessero voluto che diventassimo un esercito”.

Better Call Saul

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Mancano pochi minuti ormai alla fine di The Handmaid’s Tale: considerato che questa sesta e conclusiva stagione ci sta abituando a episodi che sfiorano appena i 40 minuti, possiamo dire che manca poco più di un’ora alla conclusione di questa serie, che per otto anni ci ha parlato di ingiustizia, rabbia, vendetta ma anche di amore, di rivalsa, di perdono.

E vedere come, a pochi passi dalla fine, la serie cominci a girare in tondo è un dato preoccupante, che ci fa pensare che The Handmaid’s Tale rischia di essere vittima di se stessa, un po’ come Game of Thrones prima di lei. Una stagione conclusiva non all’altezza di quelle che l’hanno resa un capolavoro riconosciuto nel panorama seriale non fa certo diminuire il senso di appartenenza che ci lega a questa serie. Ma, trattandosi dell’epilogo, il giudizio non interamente positivo rischia di avere un peso decisamente netto sull’ago della bilancia.

The Handmaid’s Tale 6

Quando si carica tanto qualcosa di aspettative, si rischia inevitabilmente di rimanere delusi. Ed è proprio quello che rischia di succedere con The Handmaid’s Tale. Abbiamo passato ormai otto episodi a chiederci quando sarebbe sbocciata la rivoluzione (SPOILER DE “I TESTAMENTI”: sappiamo che la caduta del regime di Gilead non è qualcosa che vedremo in questa serie e che il regime continuerà incontrastato almeno per un’altra ventina d’anni), e la rivoluzione risulta ancora non pervenuta. Tra un imprevisto e l’altro, un cambio di programma e l’altro, il matrimonio di sangue che tutti si aspettavano di vedere, quello tra Serena e il comandante Wharton, è stata invece un’ordinaria e solenne cerimonia in stile Gilead. 

Menzione d’onore per il vestito principesco di Serena Joy e per lo strascico da regina delle fate (o meglio, delle ancelle). In questa puntata il significato simbolico degli abiti è cruciale, e vedere Serena camminare per la navata con un vestito azzurro chiaro ci dice qualcosa delle usanze di Gilead. Serena è alle sue seconde nozze, quindi non può indossare un abito bianco, e a Nuova Betlemme l’abbiamo vista sempre in rosa, il colore delle donne “single”. La scelta più naturale per una donna nella sua situazione è una via di mezzo tra la purezza del bianco e il colore verde dell’abito delle Mogli, un vestito che spicca per contrasto tra le uniformi delle ancelle. Un abito che comunica qual è la sua posizione e il ruolo al quale Gilead l’ha destinata (come penserà, molto diligentemente, anche il suo neo marito a ricordarle).

La scena del matrimonio colpisce anche per la scelta di suonare il Te Deum di Marc-Antoine Charpentier (che tutti conoscono per essere la sigla delle trasmissioni in Eurovisione), nel momento in cui la sposa fa il suo ingresso in chiesa. 

Una scelta che va in contrasto totale con quella di aprire la puntata con The National Anthem dei Radiohead: la solennità di un classico del tardo barocco che si scontra con l’anticonformismo di un brano che sbeffeggia, fin dal titolo, le istituzioni per diventare un’orgia sonora che fa da sfondo alla scena che mostra la produzione dei vestiti delle ancelle, alla vestizione e alla marcia delle ragazze verso la cerimonia. Sacro e profano, antico e moderno, vecchio e nuovo. La riflessione di June (quanto ci erano mancati, i monologhi fuori campo di June?) su ciò che un tempo, prima di Gilead, significavano i vestiti e su ciò che significa ora imporre un unico abbigliamento per dividere, etichettare, dominare.

Ma anche l’altro lato della medaglia: Gilead non avrebbe dovuto dare delle uniformi alle ancelle e aspettarsi che non sarebbero diventate un esercito. Un esercito vestito del colore del sangue, del parto, del sacrificio, ma anche della rabbia, della vendetta. 

“Volevano che sembrasse che fossimo state immerse nel sangue, delle figure fiabesche con dei mantelli rossi. Ci hanno assegnato dei colori, ci hanno imposto cosa indossare, chi essere, hanno usato i nostri vestiti per dividerci, per disumanizzarci. Ma oggi queste vesti saranno le nostre armi. Oggi le useremo per iniziare una guerra. ci hanno vestito di rosso, il colore del sangue, per marchiarci: ma non hanno considerato che è anche il colore della rabbia”.

Una rabbia al servizio di una rivoluzione ancora monca, per quanto ci è dato di vedere fino ad ora. Le “nozze rosse” di Gilead non si sono consumate, alla festa l’unica cosa che è stata sparsa sono le fette di torta (piene di sedativo) distribuite ai comandanti per farli dormire, per non fargli sentire le loro ancelle che, nell’ombra della loro casa, si apprestano a ucciderli uno per uno. Una rivoluzione “domestica”, un bagno di sangue (che ancora non abbiamo visto) che assomiglia più a tante gocce di sangue che cadono che a laghi che scorrono. 

L’efferatezza, la ferocia spietata e catartica che stiamo aspettando da otto episodi è ancora rimandata: ma potrebbe essere troppo tardi, per The Handmaid’s Tale, per conciliarla anche con il necessario approfondimento psicologico e la chiusura delle tante questioni individuali lasciate aperte.

L’approfondimento psicologico è sempre stato uno dei cavalli di battaglia di questa serie: però mai come in questa stagione alcuni passaggi rischiano di rimanere didascalici. Ad esempio la scena con Zia Lydia al Centro rosso: la copertura delle ancelle è saltata, June è uscita allo scoperto e per Zia Lydia è arrivato il momento di scegliere da che parte stare. Ma il monologo di June alla sua antica nemica rischia di essere percepito più come uno “spiegone” che come il grido di rabbia di un esercito di donne spezzate. La semplice frase “Sei stata tu a farlo”, da sola, conteneva già tutta la potenza del messaggio di June, e non serviva spiegare altro. Di sicuro, per Zia Lydia questo è il definitivo punto di non ritorno. L’invocazione a Dio, per chiedergli che cosa deve fare ora, troverà una risposta che difficilmente vedremo in The Handmaid’s Tale, che ha solo preparato il terreno per la (ri)nascita di uno dei più incredibili personaggi di questa serie.

Se c’è, invece, un personaggio che sembra fare dieci passi indietro ogni passo in avanti che fa, quella è Serena. Inutile sperare in una sua tardiva conversione, in un pentimento o almeno nell’ammissione totale e incondizionata delle sue colpe. Serena è e resterà sempre convinta di aver fatto la cosa giusta. O, perlomeno, di non essere stata l’unica a sbagliare. Ce ne rendiamo conto nel discorso che fa alle ancelle durante il ricevimento di matrimonio, quando parla della sua ex ancella, ignara del fatto che è lì ad ascoltarla e a maledire ogni sua parola in silenzio. Nella sua immensa arroganza, Serena crede che quello che June le ha fatto “pesi” quanto ciò che lei ha fatto a June quando era sotto il suo comando. Vuole disperatamente “condividere” la colpa con lei per non portare il peso del rimorso da sola. Arriva persino a definirla “un’amica” e a dire che June l’ha perdonata: l’ennesima violenza nei confronti di una donna a cui ha già tolto tutto. 

Però, allo stesso tempo, non possiamo non notare il suo cambiamento di prospettiva nei confronti delle ancelle: arriva addirittura a considerarle degli esseri umani, come vediamo nella scena in cui ha un acceso confronto con il neo marito Wharton. Che, finalmente, getta la maschera di compiacimento e pazienza che aveva indossato per circuirla e si rivela per quello che è: e la cosa peggiore è che Serena lo sa, lo ha sempre saputo che lui è “solo un comandante”. Eppure l’ha sposato, rientrando nella dinamica tossica e di subalternità che si era interrotta con la morte di Fred.

“Io sono un buon uomo”, dice Wharton a Serena: e, al netto delle mostruosità di cui abbiamo visto essere capaci altri comandanti, sicuramente Wharton è “il meno cattivo” tra di loro. Come Serena, anche Wharton cerca una qualche auto-rassicurazione nel rivendicare una sua presunta bontà, dissociandosi dalla crudeltà manifesta degli altri comandanti, come se questo lo rendesse in un certo senso meno complice delle atrocità di Gilead. Wharton e Serena sono convinti di rappresentare il volto umano del regime, ma si tratta solo di una maschera.

Serena è un dannato puzzle, di cui The Handmaid’s Tale non darà mai la soluzione: è questa la forza del suo personaggio, un rebus indecifrabile di oscurità che ci affascina e ci intimorisce insieme. 

Non sono mancati, comunque, i momenti di tensione “positiva”: la scena iniziale, in cui The Handmaid’s Tale ci ricorda che, in fatto di fotografia, ha saputo e continua ancora a fare scuola. Il coreografico matrimonio a Boston, con gli imprevisti che faranno saltare il piano “nozze rosse” (con il disappunto di ogni singolo spettatore davanti alla tv), o l’uccisione del comandante Bell da parte di June. Ma anche momenti in apparenza meno significativi, come vedere finalmente la neve che torna a cadere, posandosi sulle vesti rosse delle ancelle in fuga.

L’innocenza e la purezza della neve si sciolgono istantaneamente, a contatto con il calore del sangue caldo dei comandanti e con i mantelli rossi imbevuti di rabbia e vendetta.

“La veste divenne la nostra uniforme, e diventammo un esercito”.

The Handmaid’s Tale ha ancora pochi assi da calare prima di concludere i giochi: e questa spasmodica attesa per “la rivoluzione” o almeno l’accensione di una miccia rivoluzionaria si sta spostando pericolosamente in avanti. Questo rischia di portare il momento dell’azione pura a sovrapporsi con quello di calo della tensione, in cui tutte le storyline aperte dovranno essere chiuse (o quantomeno messe in standby in attesa dello spin off).

Si rischia, insomma, di arrivare a un finale “frettoloso”, in cui le catarsi dei personaggi arrivano in maniera violenta e i titoli di testa scorrono senza dare allo spettatore il tempo di metabolizzare quanto sta avvenendo. Un problema che ha già affrontato Game of Thrones e molte altre serie: sarebbe un vero peccato vedere la storia ripetersi anche con The Handmaid’s Tale

The Handmaid’s Tale 6×07 – Aspettavamo la svolta, ma la svolta non è arrivata