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The Good Place – Il Paradiso Perduto

La mente è il proprio luogo e può in sé fare un Cielo dell’Inferno, un Inferno del Cielo. Lo script di The Good Place sembra tutto incastrato in questo concetto, che è tirato fuori dal Paradise Lost di John Milton. È una questione di dicotomie, di biforcazioni manicheiste che trovano nell’individuo, nella singola persona dispersa nel caos dell’Universo, un punto di incontro. La serie di Michael Schur affronta con il linguaggio della comedy alcuni tra i maggiori problemi esistenziali. E per farlo, non si arrischia in spericolate acrobazie concettuali, non si arrampica sugli scaffali di biblioteche impolverate, ma si lascia attraversare dal fluido delle domande dell’anima con sconcertante naturalezza, mantenendo la narrazione sempre scorrevole e disinvolta.

I quattro personaggi che si presentano sulla soglia dell’ufficio di Michael l’Architetto sono particelle di umanità prelevate dal caos e scagliate nell’aldilà. Quattro trame scarabocchiate di fretta nel grande disegno dell’Universo, che pure hanno un elemento in comune: la speranza che esista, dall’altra parte, un luogo “buono” creato su misura per ciascuno di loro. Ecco, se questa serie fosse un trattato filosofico, la intitoleremmo più o meno in questo modo: The Good Place – La disperata ricerca del Paradiso perduto.

Ma cos’è il Paradiso? Un luogo fisico, un’entità immateriale, uno stato d’animo, una meta finale?

Partiamo dal presupposto che se esiste un Paradiso, esiste anche il suo contrario: l’Inferno. Se c’è una parte buona, deve esserci per forza anche una parte cattiva. Ma si riduce tutto a questo dualismo, all’eterna e inestinguibile lotta tra angeli e demoni? Naturalmente i confini delle due estremità non sono così netti, le cose non sono così semplici. The Good Place ci dimostra come Bene e Male siano i due poli opposti di un magnete, che però cambia posizione a seconda di come si sposta la calamita. Le prospettive si ribaltano, l’Inferno può vestirsi da Paradiso e il Paradiso può assumere le sembianze dell’Inferno. Ciò che non muta è la volontà di raggiungere l’estremità buona, l’ansia di agguantare quel Paradiso perduto che appare sempre inafferrabile e sfuggente.

Eleanor, Chidi, Jason e Tahani credono di essere finiti nel posto giusto. E lo credono ogni volta, per tutti i riavvii. Perché qualcuno ha detto loro che è quello il Paradiso e i loro occhi si predispongono a guardare solo ciò che è bello, che è giusto, che funziona. Poi l’incantesimo si spezza, la parte buona rivela le sue falle e i suoi inganni e quell’idea di Paradiso che si era fatta largo nei cuori dei quattro umani si spappola ed evapora. Esiste un altro luogo migliore, un altro orizzonte a cui aspirare.

Il Paradiso è la vetta estrema di qualsiasi desiderio, la meta ultima alla quale tutti tendono, con ansia spasmodica e terrore di non riuscire a raggiungerla.

Per cui, quello dei quattro umani di The Good Place finisce per essere essenzialmente un viaggio. Non tanto verso una destinazione fisica, quanto piuttosto verso un traguardo morale. Destinazione Paradiso, verrebbe da dire. Un viaggio in cui si esce da se stessi, si prende confidenza con i disagi degli altri e si torna ad annaspare dentro i propri argini, ma più consapevoli e decisamente migliorati.

Il personaggio che più di tutti rappresenta questa parabola interiore è Eleanor Shellstrop, così cinicamente appiattita sui suoi egoistici impulsi da incanalare prima e meglio degli altri i segnali di miglioramento. Eleanor è una semplice ragazza dell’Arizona che sa svelare l’inganno della parte cattiva e smascherare i demoni che giocano a fare gli angeli. È anche una guerriera, una leader combattiva che si pone come guida di un corpuscolo di umanità per traghettarlo verso il Paradiso tanto agognato.

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Una volta lo trova nella parte di mezzo abitata da Mindy St. Claire, una volta nella filosofia, poi nell’amicizia, in Chidi, nella battaglia stessa. Il Paradiso può assumere forme diverse, ma certamente la sua ricerca ci rende persone migliori. Tahani, Jason, Chidi ed Eleanor sono persone profondamente diverse, accomunate però dalla stessa ansia di guadagnarsi un posto tranquillo in una vita migliore. Un’ansia che li unisce e li amalgama per bene, che fa di loro una piccola famiglia sballottata tra Provvidenza e libero arbitrio nel caos dell’infinito. Insieme smascherano i demoni, attraversano l’Inferno, affrontano il Giudice supremo, vengono separati e si ritrovano. Insieme convertono Michael e umanizzano Janet, insieme progettano un nuovo sistema per la vita oltre la morte. Salvano l’umanità e costruiscono un nuovo mondo. Finché un bel giorno, vengono loro aperte le porte del Paradiso.

Quel Paradiso tanto desiderato, voluto, cercato, bramato, è finalmente a portata di mano. Ma è proprio quello che ci si aspettava di trovare dopo tanto penare?

In realtà, anche la parte buona presenta le sue falle. Dietro quel mondo ovattato potrebbe nascondersi una forma diversa di dannazione. Ammorbidita magari, ma che suona ugualmente come una condanna. Ed ecco allora che il Paradiso, quello finalmente acciuffato, sarebbe di nuovo perduto se i nostri personaggi non intervenissero a creare un escamotage, una via di fuga (ecco spiegato il finale della serie). The Good Place ci insegna che la felicità sgorga nell’argine della finitezza delle cose, non nel traguardo dell’eternità.

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E questa certezza, prima ancora che in tutti gli altri, albergava nel cuore del personaggio più anomalo della serie: Michael. È lui il vero protagonista del Paradise Lost. Un Lucifer miltoniano al contrario, il demone che si ribella alla parte cattiva per meritarsi il Paradiso. E quale potrebbe essere l’unica dimensione attraverso la quale raggiungere la beatitudine? L’umanità.
Tutto torna al punto di partenza. Il caos, la Provvidenza, il fato, il libero arbitrio, l’infinito, la giustizia, il Bene e il Male, per poi tornare a una dimensione così semplice e allo stesso tempo così complessa come quella umana. Il Paradiso perduto di Michael era la Terra, quello sputo dell’Universo così caotico, barbaro e ingiusto, che, alla fine dei conti, sembra essere l’unico posto in cui valga la pena essere persone migliori.

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