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The Devil’s Hour: bella, ma non eccezionale

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su The Devil’s Hour

Difficile imbattersi sempre in una serie televisiva che sia ben scritta e ben girata. Soprattutto, quando la produzione seriale diventa massiccia e deve tenere conto della riduzione dei costi, di soddisfare l’eterogeneità degli abbonati e di competere con la concorrenza. Ecco che la linea che differenzia un capolavoro da una schifezza è più marcata. Meno visibile, invece, è lo spazio che si interpone a metà tra i due, dove il divario si assottiglia. È lo spazio che si prende The Devil’s Hour, serie british distribuita da Prime Video lo scorso 22 ottobre.

Vuoi per un pubblico più attento e “sofisticato”, ancorato ai grandi capolavori seriali e poco tollerante verso tutto ciò che può ritenersi mediocre, vuoi per indicizzazioni sempre più mirate che condannano gli utenti a riprodurre contenuti similari, spesso queste serie tv non emergono e non ricevono la giusta attenzione. Solo perché si discostano dai gusti o dalle trame narrative già preimpostate dall’algoritmo. Oppure, semplicemente, perché non fanno parte di quei prodotti che vengono presentati come capolavori ancora prima di uscire. Che poi non è detto siano, questi ultimi, sempre dei successi. Basti pensare alla prima stagione de Gli Anelli del Potere. La serie diretta da Patrick Mckey è stata annunciata mettendo in risalto la cifra record di 465 milioni per la sua realizzazione, creando aspettative micidiali. Aspettative, per altro, già molto alte se consideriamo l’immaginario tolkieniano aleggiante sulla serie. Per un risultato finale che ha deluso molti.

In questo contesto di iper esposizione seriale e di polarizzazione tra capolavoro e spazzatura, The Devil’s Hour diventa interessante perché si posiziona nel mezzo.

The Devil's Hour

Una serie che non è un capolavoro e che non viene annunciata come tale, ma che parte da una bella idea di fondo. Ideata da Tom Moran e prodotta da Steven Moffat – il produttore di Doctor Who e SherlockThe Devil’s Hour è una matrioska di enigmi all’interno della quale sono racchiusi diversi generi filmici. Siamo di fronte a un thriller psicologico dalle espressioni horror e dai risvolti soprannaturali. Una di quelle trame cervellotiche e poco lineari che affascinano subito proprio perché non sono immediate. La protagonista è Lucy Chambers, un’assistente sociale tormentata da visioni che sembrano essere ricordi di una vita passata e, al contempo, da eventi che potrebbero accadere in una vita futura. Incubi che la svegliano sempre alla stessa ora. Precisamente alle 3:33 del mattino, l’ora del diavolo, secondo la tradizione cristiana. Un orario che viene riproposto più volte nel corso della narrazione, senza avere un connessione diretta con la figura del diavolo, se non con il concetto di sovrannaturale e spirituale. Lucy Chambers deve gestire anche il comportamento di suo figlio Isaac. Dallo sguardo catatonico e privo di emozioni, Isaac sembra essere affetto da una particolare forma di autismo e da strane visioni.

The Devil's Hour

Ma i disturbi psichici c’entrano ben poco, e lo intuiamo presto quando a comparire in manette è il misterioso Gideon Shepherd, interpretato dal magnetico Peter Capaldi (il dodicesimo dottore di Doctor Who). Dietro all’espressività irrequieta di Gideon, si cela un deus ex machina, in prigione per aver commesso dei crimini, che custodisce segretamente tutte le risposte. L’arcano viene svelato solo nell’ultimo episodio, dopo essere stati proiettati in un vortice in cui finzione e realtà sembrano toccarsi per mano. Non siamo ai livelli paranoici di Mr. Robot né all’interno dei loop ciclici di Dark. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un numero infinito di vite che potrebbero esistere e non esistere simultaneamente, dove ogni scelta può generare almeno due universi paralleli e cambiare il corso degli eventi. “Mi creda non posso impedire l’11 settembre, non ancora. Ma ho impedito il 12 luglio“, afferma il personaggio di Capaldi durante l’interrogatorio, sentendosi domandare dal detective Ravi Dhillon cosa fosse successo il 12 luglio.

Moran esclude il classico viaggio nel tempo e/o tra i vari mondi paralleli, per mettere in risalto le doti sovrannaturali di Gideon nel rinascere e ricordare frammenti di vite passate

L’idea di fondo della miniserie è precisa e pone diverse sfide, sia visive che di scrittura. Nulla da dire sulle riprese. Inquadrature geometriche e ben impostate, in pieno stile inglese. Trattare il tema del multiverso, invece, non è mai semplice e può risultare un pasticcio, se fatto male. Qui, la storia si chiude in maniera coerente. Tuttavia, il modo in cui viene risolto l’inghippo, ossia attraverso flashback che ricuciono i fili, è già visto e poco originale. E se non fosse per la bravura attoriale di Capaldi, probabilmente ci saremmo annoiati in certi punti.

C’è da dire, inoltre, che la serie pecca di equilibrio. Nonostante gli episodi siano pochi, in tutto sei, lo sbilanciamento in termini di script è notevole. Nei primi due la tensione è tangibile perché la scrittura, dai toni thriller e horror, è ben dosata. Già dal terzo in poi, l’ansia si placa. Rimane la curiosità nell’attribuire un valore ai ricordi e al passato di Lucy, ma i pochi colpi di scena appiattiscono la parte centrale. Non vi è possibilità per lo spettatore di ipotizzare congetture per provare a risolvere gli enigmi, proprio perché le informazioni che vengono date sono limitate. Distanti anche in questo caso da Dark, dove invece le informazioni che arrivano allo spettatore sono create appositamente per illudere e depistare.

L’ultimo episodio, dunque, trova una logica e ci risolleva dall’accomodamento degli episodi precedenti. Il montaggio finale, che ci mostra in sequenza la frammentazione sensoriale di Lucy e Gideon, tenta di ricomporre il puzzle di una storia che non vuole tanto spiegarci il singolo dettaglio, quanto metterci di fronte al paradosso del multiverso. Per un finale consolatorio, non troppo esaustivo, che apre le porte alle prossime due stagioni, rinnovate da Amazon Prime Video. Anche il finale, come in generale The Devil’s Hour, si trova a metà. Non è un capolavoro né un obbrobrio. È bello, ma non è eccezionale.

Ad ogni modo, il finale apre a nuove possibilità e instilla il dubbio sulla veridicità delle parole di Gideon. Ci racconta la sua storia, riviviamo con lui frammenti della sua infanzia, vediamo commettere crimini e quasi lo giustifichiamo per ciò che compie. Difatti, è il suo racconto. Ma se fosse egli stesso il diavolo?