Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla quarta stagione di The Bear.
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Il tempo scorre, scorre veloce. Centinaia di ore, scandite da un timer: lo zero è uno spettro, definitivo. L’ombra del fallimento, dell’imperfezione, di una vita che fugge via da un’altra parte. Per l’ennesima volta. Sì, ma quale tempo? Davvero è così veloce, quel countdown? Sì, ogni secondo conta. Ma quanto dura, davvero, un secondo? Un secondo? No, non più. Il tempo, in fondo, è oggettivo e relativo, insieme: un secondo è sempre un secondo, anche se la percezione del suo scorrimento è fondamentale. Decisivo. Essenziale. Essenziale come è stato nella quarta stagione di The Bear, come non mai. Come sempre, ma con un capovolgimento totale delle prospettive: oggettivo sì, relativo eccome. Cosa significa tutto ciò? Significa che stiamo guardando sempre la stessa serie, una delle migliori dell’ultimo lustro, ma anche qualcosa di completamente diverso.
La quarta stagione di The Bear, disponibile da alcune settimane su Disney+, mostra plasticamente quanto questa straordinaria opera sia cambiata nel corso del tempo.
Dal caos vorticoso, claustrofobico e soffocante, alla contemplazione di una bellezza troppo spesso fine a sé. Una vacua tendenza al controllo della forma, nella vana speranza di controllare così un’esistenza tempestata dai traumi e dai lutti. La risposta sbagliata a domande che si teme di fare: trincerata nella fuga, in un nuovo obiettivo. Per non fare i conti una volta per tutte con se stessi, per evitare di metabolizzare i lutti. Soprattutto, per trasformare le ferite in cicatrici e poi andare avanti. Dentro una cucina, o altrove. Ma poi è arrivata la quarta stagione di The Bear: la stagione della guarigione. Delle scuse, effettive. Dei dialoghi serrati, dei chiarimenti attesi da anni. Ma anche delle riconciliazioni, effettive. E del disvelamento della maschera: la cucina, quella delle grandi eccellenze, è sempre stata una risposta effimera, inconsistente.
Non è mai stata il punto di questa serie. Il punto è un altro. E ora, finalmente, lo abbiamo trovato.
L’amore per la cucina, a patto che sia anche amore per se stessi

Ci sono due momenti nella quarta stagione di The Bear che segnano profondamente la decisione finale di Carmy. Sono silenziosi, suggeriti e non espliciti, ma chiari nell’intento. Nel corso della quarta puntata, incentrata sul personaggio di Sydney, la chef prepara un pasto semplice per una bambina, figlia di una sua amica. Siamo ancora nel terreno della prima The Bear, con una transizione nella seconda: immersa in un vortice caotico nel quale non sa quale decisione prendere, Sydney sostiene un’altra persona, anch’essa al bivio, attraverso la cucina. Ogni passaggio è scandito armonicamente: è un atto d’amore, nonché l’essenza più positiva di un’arte che trova la sua massima espressione nel prendersi cura del prossimo. Qui Sydney decide, seppure titubante: vuole diventare una Berzatto e mettere al primo posto la sua nuova famiglia.
Alcune puntate dopo, Carmy si ritrova in una situazione per certi versi simili: dopo un confronto viscerale con la madre, decide di cucinare per lei.
I tempi degli orologi impazziti sono finiti: non è più Donna a prendersi cura degli altri, rincorrendo un tempo che non esiste ma che rimbalza freneticamente nella sua fragile mente. Non c’è più la disperata fuga dal caos – finendo per abbracciarlo nel modo più intenso – bensì il contrario. Carmy cucina per lei, amorevolmente. Dopo chissà quanto. E amorevolmente la abbraccia con un atto concreto, dopo chissà quanto: non l’espressione di un’arte, ma un approccio umano essenziale nei confronti di una donna che ama.
Non insegue più il sogno della perfezione per sfuggire agli spettri della sua mente, esattamente come aveva fatto la madre per una vita intera: cucina, silenziosamente. E noi manco lo vediamo. Assistiamo al prima e al dopo: nel mentre un taglio. Il buio di un montaggio brutale. The Bear ci nega così l’arte di Carmy, portandoci in una nuova dimensione del suo racconto. Ancora più intima, con la consapevolezza di poter andare oltre e superare la tempesta.
Cosa significa tutto ciò?
Da una parte vediamo l’amore per la cucina ancora presente in Sydney: gli affetti vengono prima, ma la connessione è forte. La cucina è un piacere, al di là di tutto. Ma Carmy no, non è così. Non è più così, o forse non lo è mai stato.
Prova un intimo piacere nel cucinare per la commensale prediletta, una madre ritrovata oltre la burrasca. Lo riconosciamo, ma è un momento riservato, per questo lontano anche dai nostri occhi. E poi? Chi è, tra le mura di una cucina destinata agli altri, ai volti sconosciuti che non cercano altro che un’eccellenza in lui? Che senso ha tutto ciò, se alla base non c’è più amore? Gliel’aveva domandato Sugar, poco tempo prima: Carmy ama ancora quello che meglio sa fare nella vita? Oppure ha finalmente preso atto del fatto che l’armonia del gusto e dell’estetica sia solo una chimera, se dentro di sé albergano traumi solo apparentemente irrisolvibili?
La quarta stagione di The Bear è tutta qui: è un atto d’amore per se stessi.
Per accettarsi. Per risentirsi vivi quando ogni cosa sembra perduta. Sì: ricominciare, davvero. Nei modi più disparati, non più disperati. Anche lontani da una cucina, se necessario.
Già, la cucina. Là dove il tempo scorreva freneticamente, resta l’azzeramento. Ogni secondo conta, se scorre placido.

La quarta stagione di The Bear è la stagione della catarsi. Della distensione. Del dialogo, sacrosanto. E della condivisione. Persino della pace, mentre sentiamo nelle nostre menti i tumulti del conflitto incombere. Succede soprattutto nel corso della settima puntata. Un’altra Fishes, ma al contrario: un episodio fiume, ancora ambientato nel corso di un’importante ricorrenza nella quale la famiglia Berzatto si riunisce. Attendiamo il momento dell’esplosione, percependo implosioni costanti che tuttavia non divampano mai in un incendio. Non per una sottrazione forzata, ma per addizione: di una nuova consapevolezza, di un nuovo corso. Altro, finalmente.
Un senso d’armonia imperfetto e a tratti indeciso, costantemente sul ciglio del burrone ma in equilibrio precario: ogni personaggio sta facendo i conti con la propria storia e col proprio vissuto, riscoprendosi più bello di un tempo. Perché belli lo sono da sempre, pur con innumerevoli storture: lo specchio, però, proietta ora un’immagine diversa. Persino Carmy lo fa, a un certo punto: ritrova la sua Claire, si riappacifica con lo “zio” Lee e ritrova un qualche motivo per sorridere. Non si nasconde più: abbraccia il caos e lo condivide, affrontandolo davvero per la prima volta.
Ciò non significa che i traumi siano davvero superati, affatto. Il percorso è avviato e il timer ha ripreso a scorrere un attimo dopo i titoli di coda, al riparo dai nostri occhi: stavolta, però, lo farà in avanti.
Lo ritroveremo nella quinta stagione di The Bear, con una nuova consapevolezza: no, la cucina non è mai stata il punto di questa storia. La cucina è un pretesto, altro.
Il caos claustrofobico, i montaggi serrati e i piani sequenza logoranti sono ormai alle spalle: è il tempo totalizzante dei primi piani più stretti, dei dialoghi a due che sanno di confronto risolutore e di un racconto che guarda al futuro come mai aveva fatto. Non è più ostaggio del passato, nella prigione dorata di una cucina.
The Bear mostra così il suo vero volto: le grandi imprese e i sogni di rivalsa non sono più una priorità, i personaggi lo saranno sempre. Anche lo stile lo conferma — non più piatti da ammirare in montaggi vorticosi, ma volti, respiri, parole. La musica non sottolinea il silenzio: è dentro le conversazioni che contano. È un altro ritmo, un altro modo di raccontare. E la trama, a quel punto, diventa poco più di un pretesto. Non serve più gridare tra i fornelli per sentirsi vivi. Non serve più nascondersi dietro il fuoco. Ora c’è il silenzio, i volti, la possibilità. Le parole, condivise. Per condividere la gioia dopo aver condiviso il dolore.
Nessuno è mai stato solo, ma ora tutti lo sanno. Resta una cucina vuota. Nel cuore della notte. I fornelli spenti, la quiete. Ogni posata è riposta. Incombe una nuova alba, e ora fa un po’ meno paura.
Antonio Casu






