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Ma perché Snowfall non ha mai avuto l’attenzione mediatica che meritava?

Snowfall

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Los Angeles, primi anni ’80. Una cartolina ingannevole: sole eterno, insegne al neon, glamour da copertina. Ma basta spostare lo sguardo di qualche isolato per finire in un’altra città, dove le strade sono arse dalla polvere, le finestre sbarrate, le sirene un sottofondo costante. È qui che Snowfall mette le sue radici. La serie di John Singleton, Eric Amadio e Dave Andron non racconta semplicemente l’epidemia di crack: la inchioda alla parete come una prova in un processo, la osserva da ogni angolo, la smonta pezzo per pezzo fino a mostrare il meccanismo che l’ha generata.

Dal 2017, su FX, Snowfall si muove su due livelli: da un lato il racconto intimo, dall’altro l’affresco storico. E in questa doppia dimensione, l’opera trova il suo peso. Non c’è nostalgia, non c’è glamourizzazione del crimine. C’è una messa in scena ruvida, che restituisce il bruciore dell’asfalto sotto i piedi e l’odore acre delle cucine dove la polvere bianca diventa crack. Singleton, cresciuto in quella stessa Los Angeles, infonde nella serie la precisione di chi non ha bisogno di inventare: deve solo ricordare. E quel ricordo, sullo schermo, diventa implacabile.

Franklin Saint: l’ascesa e il peso del potere

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Il protagonista entra in scena con lo sguardo di chi sa di essere destinato a qualcosa di grande, ma non ha ancora deciso se grande significhi giusto. È giovane, sveglio, affamato. Inizia spacciando per strada, senza immaginare che il crack lo porterà a diventare un re, e che quel trono sarà una sedia elettrica mascherata. Damson Idris lo interpreta con una precisione chirurgica: ogni micro-espressione è un graffio in più sulla coscienza del personaggio.

Franklin è un antieroe che non si limita a scivolare nell’oscurità: ci cammina dentro consapevolmente, pesando ogni passo. Il suo percorso è una discesa, ma non priva di lucidità. È il simbolo di un’intera generazione lasciata in balia di due forze ugualmente letali: la povertà strutturale e la promessa tossica del potere. Il bello – o il tragico – è che Franklin non viene mai ridotto a cliché: è un uomo complesso, capace di tenerezza e di spietatezza nello stesso episodio. È in lui che Snowfall trova il suo battito cardiaco, quello irregolare, a volte accelerato, a volte pericolosamente lento, di chi vive sapendo che ogni respiro potrebbe essere l’ultimo.

Intrighi internazionali e sporchi segreti di Stato

Se il protagonista è il volto del crack per strada, Teddy McDonald è quello del crack nei corridoi del potere. Agente CIA in missione “ufficiosa” per finanziare i Contras in Nicaragua, Teddy porta con sé il cinismo delle operazioni clandestine e il peso di una doppia morale. Snowfall lo usa per sollevare la pietra e mostrare il marciume sotto: la droga come valuta di scambio geopolitica, un’arma di guerra travestita da merce.

È una verità storica scomoda, che la serie ha il coraggio di mettere in primo piano senza annacquarla. Teddy non è un villain monodimensionale: è un uomo che crede di servire un bene superiore, ma che lentamente viene divorato dalle stesse logiche sporche che applica. La sua paranoia cresce a ogni episodio, e con essa la solitudine. È un personaggio che incarna la contraddizione americana: esportare “libertà” mentre si inquina casa propria. L’interpretazione glaciale di Carter Hudson rende perfettamente quel miscuglio di freddezza professionale e fragilità umana che, alla fine, esplode sempre.

Gustavo e Lucia: l’altra faccia del confine

SNOWFALL — “The World is Yours” — Season 2, Episode 7 (Airs Thursday, August 30, 10:00 pm ET/PT) — Pictured: (l-r) Isaiah John as Leon Simmons, Damson Idris as Franklin Saint, Malcolm Mays as Kevin Hamilton. CR: Prashant Gupta/FX

La coppia formata da Gustavo “El Oso” Zapata e Lucia Villanueva offre un contrappunto fondamentale: il crack non è un’esclusiva americana, ma un flusso transnazionale che scorre oltre i confini. Gustavo, ex wrestler con una moralità plasmata dalla necessità, e Lucia, donna ambiziosa divisa tra famiglia e autodeterminazione, mostrano l’altra metà del sistema. La loro storia ha il sapore della tragedia shakespeariana: alleanze fragili, tradimenti interni, sangue versato per consolidare il potere.

Con loro, Snowfall allarga l’orizzonte, mostrando che il mercato della droga non si esaurisce nei vicoli di Los Angeles ma si alimenta di reti internazionali, di connivenze politiche e di famiglie che trasformano il crimine in tradizione. Il racconto di Gustavo e Lucia è anche quello di un confine che non è mai solo una linea sulla mappa: è un punto di passaggio per merce, soldi, violenza, e vite umane.

Estetica e potenza narrativa

L’impronta di John Singleton è ovunque: nel taglio delle inquadrature, nel ritmo, nella colonna sonora. Snowfall ha un’estetica che rifiuta il patinato: la camera indugia su volti segnati, su mani che contano banconote sporche, su vicoli illuminati da lampioni difettosi. Ma sa anche fermarsi su immagini di struggente bellezza: un tramonto su South Central, il riflesso di una fiamma su una bottiglia di vetro, il silenzio teso prima di uno sparo. La colonna sonora è un ponte tra epoche: hip-hop, funk e soul si intrecciano per radicare lo spettatore in quel momento storico, ma anche per sottolineare la continuità culturale tra quegli anni e oggi. Ogni scelta visiva e sonora non è decorativa: è funzionale al racconto, amplifica la tensione, scolpisce l’atmosfera, rende ogni episodio un atto cinematografico compiuto.

Riflessione sociale e denuncia sistemica

Più che intrattenere, Snowfall interroga. Chiede allo spettatore di guardare negli occhi un sistema che ha generato il problema e poi ha criminalizzato le sue vittime. Mostra quartieri lasciati a marcire, famiglie disgregate, comunità intere trasformate in campi di battaglia. Denuncia la responsabilità politica senza scadere nel moralismo: è la narrazione a fare l’accusa, non un discorso diretto. Ogni personaggio è una tessera di un mosaico più grande, dove nessuno è completamente innocente, ma pochi sono davvero colpevoli in senso individuale. La colpa è strutturale, diffusa, sistemica. Ed è qui che Snowfall diventa non solo una serie crime, ma un documento politico.

Il successo silenzioso di un capolavoro

breaking bad

Non tutte le grandi serie fanno rumore. Alcune scelgono di insinuarsi in silenzio, di costruire il proprio mito lontano dai riflettori del marketing e dai premi facili. Snowfall è una di queste. Fin dal suo debutto, non ha mai cercato di competere sul terreno del glamour televisivo o delle campagne virali. Non ha avuto il traino di un protagonista hollywoodiano già consacrato, né il sostegno di un brand globale alla Narcos. Eppure, episodio dopo episodio, stagione dopo stagione, ha costruito un seguito fedele, quasi militante, fatto di spettatori che non si accontentano di un crime patinato, ma cercano profondità, verità, sostanza.


Il suo “successo silenzioso” è una scelta narrativa e politica: Snowfall non vuole venderti il mito del gangster come anti-eroe romantico. Non trasforma il crack in un pretesto per azioni spettacolari scollegate dal contesto. Al contrario, mantiene costantemente il focus sulle conseguenze umane, sui danni collaterali, sulle vite spezzate. Questo l’ha resa meno appetibile per un pubblico che spesso vuole essere intrattenuto senza sentirsi messo sotto accusa, ma l’ha trasformata in una serie rispettata da chi di serialità ne capisce.


C’è anche un fattore di “tempismo mancato”: Snowfall è arrivata quando il genere crime stava virando verso format più sintetici e binge-friendly, mentre lei ha scelto di prendersi il suo tempo. È stata una scommessa rischiosa, ma coerente con la sua identità. E il risultato è che oggi, a distanza di anni, viene riscoperta come si riscoprono i dischi cult: lavori che magari non hanno scalato le classifiche, ma che hanno plasmato un linguaggio e ispirato altre opere. In un’industria che misura il successo solo in numeri e hype, Snowfall è la dimostrazione che il vero impatto si vede nel tempo, nella traccia che lasci dopo che l’ultima scena è andata in onda.

Perché vale la pena riscoprirla oggi?

Snowfall

Guardare Snowfall oggi è come aprire un archivio segreto e trovarci dentro un pezzo di storia che pensavi fosse stato insabbiato. Non è solo intrattenimento di qualità: è una lente potente su un momento cruciale dell’America contemporanea, capace di collegare il passato al presente in modo spietato e diretto. I temi che affronta — disuguaglianza, militarizzazione delle comunità, strumentalizzazione politica della droga — non sono scomparsi, hanno solo cambiato forma e nome. Ecco perché la serie continua a essere urgente: perché racconta un meccanismo che si ripete.


Riscoprirla oggi significa capire come il crack non sia stato un “incidente” sociale, ma il prodotto di una catena di decisioni politiche, interessi internazionali e silenzi istituzionali. Significa osservare la trasformazione di un giovane come Franklin Saint e chiedersi quanti “Franklin” ci siano ancora oggi, in altri quartieri, con altre sostanze, altre economie criminali.

Significa vedere come il confine tra vittima e carnefice diventi sottile quando il sistema stesso ti spinge a scegliere tra sopravvivere e rispettare le regole.
Ma riscoprirla è anche un piacere cinematografico. È lasciarsi catturare da una regia che sa alternare il respiro lento di una scena dialogata al ritmo claustrofobico di un’azione. Si tratta di ascoltare una colonna sonora che non fa solo da sfondo, ma costruisce memoria emotiva. È riconoscere una scrittura che non ha paura di sporcare i personaggi, di renderli incoerenti, contraddittori, vivi.


In un’epoca in cui la serialità è spesso “usa e getta”, Snowfall resiste come un’opera che chiede tempo, attenzione e partecipazione emotiva. Rivederla oggi non è nostalgia: è un atto di consapevolezza. Perché racconta qualcosa che è successo, ma che, in altre forme, continua a succedere proprio ora.

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