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Seven Seconds: sulle nevi di Jersey City Dio è morto

Non mi stupisce che Seven Seconds sia passato sotto silenzio in Italia e che, da Serie Tv antologica quale voleva essere nelle intenzioni dei suoi creatori, non avrà neanche una seconda stagione. È un prodotto fatto apposta per il mercato americano, con i suoi conflitti di razza (non che in Italia non ve ne siano, ma hanno contorni e contesti molto diversi) che qui arrivano naturalmente depotenziati, forse non in qualità, ma decisamente nel messaggio.

Andiamo con ordine: dalla creatrice di The Killing, Veena Sud, e dal regista, tra gli altri, di The Accountant, Gavin O’Connor, Netflix rilascia un crime potente come un pugno nello stomaco, alternativo, se non complementare, ai crime classici e decisamente godibile.

La trama di Seven Seconds (il senso del titolo è racchiuso nell’arringa finale della protagonista) è presto detta.

Peter Jablonsky, poliziotto bianco appena assunto alla narcotici di Jersey City sud, investe inavvertitamente in un parco un ragazzino di colore che andava in bicicletta. Nel panico, chiama la squadra a cui è stato assegnato, che lo aiuterà a coprire l’incidente. Senza accorgersi, però, che il ragazzo è ancora vivo…

Una squadra di attori davvero valida, su tutti la vincitrice dell’Emmy Regina King (American Crime), Clare-Hope Ashitey (Doctor Foster), e la semplicemente perfetta Nadia Alexander nei panni della tossica Nadine, ci porta per 10 puntate di un’ora l’una in una partita a scacchi in cui scopriamo tutto il lercio che c’è dietro il mondo patinato dei Law And Order e dei CSI. Perchè nell’indagine seguita dal sostituto procuratore KJ Harper (la Ashitey) e dal detective Joseph Rinaldi (in arte Fish, un disturbante Michael Mosley), tutto è esattamente come appare, e questo non promette davvero nulla di buono.

Seven Seconds affronta tutto quello che gli altri crime non dicono, perchè non hanno voglia e tempo, e non scelgono, perchè non hanno coraggio.

A partire dal linguaggio, che è per il 90% slang delle periferie usato da tutte le classi sociali; un codice che permea perfino i nomi: Fish, Mikey, Petey-bello e così via li sentiamo più spesso dei nomi reali dei presonaggi.

Continuando con la squadra sotto torchio: la narcotici, che in moltissimi altri prodotti del genere (i già citati, ma aggiungiamoci Rizzoli & Isles e Major Crimes per altri esempi) è solo citata in paragoni degradanti e infelici. Beh, qui scopriamo perchè, e la grande differenza tra la narcotici e tutte le altre squadre di polizia seriali.

La squadra capitanata da Michael “Mikey” DiAngelo, che oscilla tra eccellenza pubblica e omertà private, non può fare a meno di sporcarsi le mani e trovare compromessi con coloro che dovrebbe arrestare. Jablonsky impara in fretta: può fare soldi facili, avere encomi, scalare i vertici, ma a patto di avere un silenziatore al posto del cuore. La narcotici affronta una guerra che non può vincere e si accontenta di portare a casa tutte le battaglie che può con meno feriti possibili.

Per passare ai rapporti tra i personaggi, splendidi, ironici, complessi.

Solo alla fine capiremo da cosa nasce il senso di protezione che lega DiAngelo a Jablonsky; solo alla fine verranno fuori i rapporti segreti dentro la famiglia Butler; mentre forse non scopriremo mai quanto è stata sottile la distanza tra KJ Fish, che si sfiorano senza toccarsi mai, ma che trovano un nuovo volto verso cui alzare lo sguardo dalle loro miserie.

Sono loro i protagonisti di un’indagine niente affatto convenzionale per il peso della vittima, il ruolo dei colpevoli ma soprattutto la presenza ossessiva dei media e della città intera, che non vuole più tacere sui crimini perpetrati da poliziotti bianchi su ragazzi di colore. 

E KJ e Fish sono tutt’altro che perfetti e sono combattuti tra il lasciarsi andare ai loro vizi e il cogliere quella strana opportunità: la giustizia per Brenton Butler (questo il nome del ragazzino investito) potrebbe essere anche giustizia per loro, in un mondo che li ha voluti ai margini, esattamente come il caso di cui si stanno occupando.

Come se non bastasse, a questo calderone si aggiungono il difficile rientro dei militari (“Credevo volessi tornare a casa” “Io non ho più una casa”) e lo spaccio di eroina come piaga di una gioventù ai margini, che non può essere salvata, se non nei singoli elementi.

E in questo il rapporto tra Fish e la tossica Nadine, che si ritrovano padre e figlia a dispetto di un mondo che li voleva soli è una delle storyline meglio riuscite di tutta la Serie.

E questo miscuglio di razze porta inevitabilmente a un miscuglio di valori in cui si perdono bene e male per farne uscire una purezza sporca o una sporcizia giustificata dalle intenzioni. Solo due valori in realtà vanno a braccetto, verso un’identica perdizione: la fede e la fiducia.

Perchè, in fin dei conti, Seven Seconds parla innanzitutto di e con Dio. E ci chiede a cosa bisogna credere quando si è subito il peggiore dei torti.

E la risposta non esiste perchè Dio ha smesso di esserci quando ha permesso la più atroce delle ingiustizie e Seven Seconds, come il mondo reale da cui trae spunto, non rilascia soluzioni nè assoluzioni. Al massimo consigli su come alleviare il senso di colpa, e una frustrazione difficile da mandar giù.

Perchè, come dice la protagonista nella scena finale:

Una volta pensavo che la benda (quella che avvolge gli occhi della statua della giustizia, al di fuori dei tribunali, ndr) fosse una cosa buona

Ora non più, verrebbe da pensare, del resto una giustizia cieca non può vedere la verità. Ma, come dirà l’avvocato della difesa ai suoi clienti:

Benvenuto del sistema di giustizia penale. Qui della verità non frega niente a nessuno.

E KJ Harper non dirà altre parole, lasciando il pubblico a cercare una morale che forse non esiste.

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