6) Maniac

Ambientata in una realtà alternativa che sembra uscita da un incubo degli anni ’80, dove i computer sono ancora a tubo catodico, ma possono leggere la tua psiche e le pubblicità sono personalizzate al punto da essere letteralmente incarnate. Maniac ci mostra un mondo disfunzionale quanto i suoi protagonisti.
La serie racconta la storia di Owen Milgrim e Annie Landsberg, due anime profondamente sole e schiacciate dal peso del proprio trauma. Owen è un uomo fragile, schivo, che combatte con la schizofrenia. Annie è rabbiosa, dipendente da una droga e annientata dal senso di colpa legato alla sorella morta. Entrambi accettano di partecipare a un esperimento farmaceutico in grado, teoricamente, di riscrivere le proprie ferite.
E qui Maniac si trasforma in qualcosa di unico: un viaggio nei mondi interiori.
Ogni pillola presa nel laboratorio li catapulta in realtà alternative: un noir anni ’40, una saga fantasy in stile Il Signore degli Anelli, una sitcom americana, un thriller nordico, una spy story. Ogni universo è un riflesso distorto del loro dolore. Eppure, qualcosa li tiene legati. Owen e Annie si ritrovano, si riconoscono, si aiutano, anche quando non dovrebbero ricordarsi l’uno dell’altra. Visivamente, poi, Maniac è un gioiello. Ogni episodio cambia tono, genere, fotografia, pur con una coerenza emotiva che pulsa sottopelle. La regia di Cary Fukunaga è elegante e spiazzante allo stesso tempo.
Il design della macchina pensante, il supercomputer GRTA, che piange lacrime reali e ha crisi depressive, è uno dei simboli più geniali e disturbanti dell’intera serie tv sci-fi. Anche la tecnologia qui appare umana, fragile, imperfetta.
7) Westworld

C’è una domanda che Westworld ci pone fin dal primo sguardo: che cosa significa essere umani? E ce lo chiede attraverso lo sguardo vuoto e dolente degli androidi mentre cercano, con tutto ciò che non sanno ancora di essere, un senso.
Westworld è un’esperienza visiva e filosofica, un labirinto interiore presentato con fattezze da western futuristico.
E nel cuore del parco a tema, una Disneyland per ricchi assetati di violenza, pulsa il sogno impossibile dell’autocoscienza. Ogni fotogramma della serie tv sci-fi targata HBO è scolpito con la precisione di uno scultore che ha visto troppo e ora vuole solo capire. Le prime stagioni alternano l’oro polveroso del vecchio West a laboratori freddi, dove il futuro sembra essersi già stancato di se stesso. Poi, nelle stagioni successive, il mondo si apre: città ipertecnologiche, architetture giapponesi, grattacieli trasparenti, e ancora deserto e cemento
È un’estetica che non serve solo a stupire, ma a interrogare. Perché in Westworld, la bellezza non è mai innocente. Si tratta di un palcoscenico per le tragedie della coscienza. È lo specchio in cui Dolores, Maeve, Bernard (e noi con loro) si riflettono, interrogandosi su se stessi. Tra i fili intrecciati di realtà e simulazione, è la coscienza del dolore a emergere come vera protagonista. I personaggi artificiali soffrono, ricordano, imparano.
Westworld ci dice che l’umanità non è un punto di partenza, ma una meta da raggiungere. Durante la visione tendiamo a dubitare di tutto: dalla linearità, del tempo al nostro senso di empatia. La serie ci guarda con occhi malinconici e sintetici, lasciandoci con più di una domanda bruciante.