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9 Serie Tv sci-fi degli ultimi dieci anni che sono visivamente ed esteticamente sublimi

Il protagonista di Scissione, una delle serie tv in arrivo più intriganti del momento

6) Maniac

Una scena tratat dalla serie tv Netflix Maniac
Credits: Netflix

Ambientata in una realtà alternativa che sembra uscita da un incubo degli anni ’80, dove i computer sono ancora a tubo catodico, ma possono leggere la tua psiche e le pubblicità sono personalizzate al punto da essere letteralmente incarnate. Maniac ci mostra un mondo disfunzionale quanto i suoi protagonisti.

La serie racconta la storia di Owen Milgrim e Annie Landsberg, due anime profondamente sole e schiacciate dal peso del proprio trauma. Owen è un uomo fragile, schivo, che combatte con la schizofrenia. Annie è rabbiosa, dipendente da una droga e annientata dal senso di colpa legato alla sorella morta. Entrambi accettano di partecipare a un esperimento farmaceutico in grado, teoricamente, di riscrivere le proprie ferite.

E qui Maniac si trasforma in qualcosa di unico: un viaggio nei mondi interiori.

Ogni pillola presa nel laboratorio li catapulta in realtà alternative: un noir anni ’40, una saga fantasy in stile Il Signore degli Anelli, una sitcom americana, un thriller nordico, una spy story. Ogni universo è un riflesso distorto del loro dolore. Eppure, qualcosa li tiene legati. Owen e Annie si ritrovano, si riconoscono, si aiutano, anche quando non dovrebbero ricordarsi l’uno dell’altra. Visivamente, poi, Maniac è un gioiello. Ogni episodio cambia tono, genere, fotografia, pur con una coerenza emotiva che pulsa sottopelle. La regia di Cary Fukunaga è elegante e spiazzante allo stesso tempo.

Il design della macchina pensante, il supercomputer GRTA, che piange lacrime reali e ha crisi depressive, è uno dei simboli più geniali e disturbanti dell’intera serie tv sci-fi. Anche la tecnologia qui appare umana, fragile, imperfetta.

7) Westworld

Dolores della serie tv sci-fi Westworld: un'intelligenza artificiale dall'indubbio fascino
Credits: HBO

C’è una domanda che Westworld ci pone fin dal primo sguardo: che cosa significa essere umani? E ce lo chiede attraverso lo sguardo vuoto e dolente degli androidi mentre cercano, con tutto ciò che non sanno ancora di essere, un senso.

Westworld è un’esperienza visiva e filosofica, un labirinto interiore presentato con fattezze da western futuristico.

E nel cuore del parco a tema, una Disneyland per ricchi assetati di violenza, pulsa il sogno impossibile dell’autocoscienza. Ogni fotogramma della serie tv sci-fi targata HBO è scolpito con la precisione di uno scultore che ha visto troppo e ora vuole solo capire. Le prime stagioni alternano l’oro polveroso del vecchio West a laboratori freddi, dove il futuro sembra essersi già stancato di se stesso. Poi, nelle stagioni successive, il mondo si apre: città ipertecnologiche, architetture giapponesi, grattacieli trasparenti, e ancora deserto e cemento

È un’estetica che non serve solo a stupire, ma a interrogare. Perché in Westworld, la bellezza non è mai innocente. Si tratta di un palcoscenico per le tragedie della coscienza. È lo specchio in cui Dolores, Maeve, Bernard (e noi con loro) si riflettono, interrogandosi su se stessi. Tra i fili intrecciati di realtà e simulazione, è la coscienza del dolore a emergere come vera protagonista. I personaggi artificiali soffrono, ricordano, imparano.

Westworld ci dice che l’umanità non è un punto di partenza, ma una meta da raggiungere. Durante la visione tendiamo a dubitare di tutto: dalla linearità, del tempo al nostro senso di empatia. La serie ci guarda con occhi malinconici e sintetici, lasciandoci con più di una domanda bruciante.

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