2) Fondazione

Nel mondo delle serie tv sci-fi Fondazione si presenta come un’anomalia rara. Tratta (con coraggio) dai cicli narrativi di Isaac Asimov, la serie prodotta da Apple TV+ osa qualcosa che sembrava impossibile. Trasformare i concetti vasti e astratti di Asimov, come la psicostoria o la caduta delle civiltà, in qualcosa di emotivo, intimo e perfino struggente.
L’impero dei fratelli-cloni (Dawn, Day, Dusk) è visivamente uno dei regni più inquietanti e affascinanti mai visti in televisione. L’incarnazione di un potere eterno che si replica come un loop genetico, e che si riflette nella simmetria delle sale, nel bianco abbacinante delle stanze, nella liturgia dei gesti. Ogni gesto è rituale. Ogni oggetto è metafora. E poi c’è Terminus, il pianeta ai margini. Qui la fotografia cambia e si fa più ruvida, più fisica, più vulnerabile. Il contrasto è potente.
Il rischio, nella serie tv sci-fi, è quello di sentirsi sempre troppo piccoli per afferrare tutto. In questa vertigine narrativa ci ricordiamo che siamo sabbia all’interno di una clessidra cosmica.
La serie non ci chiede di capire tutto. Ci chiede di sentire la gravità del tempo. Di accettare l’idea che le rivoluzioni siano piantate da mani che non vedranno mai il frutto. Che l’ordine, il disordine e l’utopia non siano opposti, ma parti di un’unica traiettoria. Ma la cosa più sorprendente è che Fondazione, sotto la sua maestosa armatura visiva, è profondamente umana. Gaal Dornick, Salvor Hardin, Brother Dawn sono tutti personaggi che lottano contro la loro stessa identità, contro l’idea di essere strumenti o pedine. È la vecchia domanda: siamo liberi o programmati? La bellezza di Foundation non è quella dell’azione. È quella del pensiero. Della visione a lungo termine. Dell’intuizione che la conoscenza – la vera conoscenza – non sia mai solo potere, ma anche sacrificio.
3) The Mandalorian

Non è un mistero che The Mandalorian sia un western mascherato da space opera. Ma quello che sorprende è quanto ci creda. Ogni pianeta è una nuova frontiera e ogni decisione un peso. E poi c’è lui: Mando. Quando si inizia The Mandalorian, un po’ tutti probabilmente abbiamo pensato sarebbe stato uno spin-off carino. Un diversivo western in salsa galattica, uno show pieno di blaster, jetpack, creature strane. Ma non eravamo pronti per la solitudine, né per la dolcezza.
Perché The Mandalorian non è davvero una storia di Star Wars.
È una storia di paternità. È un racconto silenzioso sull’affetto che cresce nel vuoto, sui legami che si costruiscono senza parole. E sì, ci sono i duelli, le astronavi, i pianeti desertici, ma sono solo il paesaggio. Il cuore è altrove. Il cuore è in quel piccolo essere verde con gli occhi spalancati, e nell’uomo dietro l’elmo che impara ad amare. Pedro Pascal recita per metà della serie tv sci-fi senza farsi vedere in faccia. Potrebbe sembrare una limitazione, ma in realtà è un dono. Perché in quella maschera fissa impariamo a leggere le sfumature.
Con questo non vogliamo dire che l’estetica non conti. Conta eccome. The Mandalorian è visivamente splendido. Ogni ambientazione sembra scolpita nel tempo, ogni creatura ha una fisicità che manca in tante altre produzioni digitali. La sabbia ha peso. Il metallo riflette luce vera. È una galassia vissuta, usurata, sporca. Ma non è lo scenario a fare la storia, semmai viceversa.