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Il “formato smart” delle stagioni ha davvero senso anche per le serie tv comedy?

A proposito delle serie tv comedy sempre più corte. A proposito di noi.

Vogliamo di più. Vogliamo tutto. Lo vogliamo subito. Ma non per troppo tempo. In apparenza, almeno. Vogliamo più musica, a patto che i brani non superino i tre, massimo quattro minuti. Vogliamo più film: sì, ma quali? Spesso ci facciamo dare un consiglio molto appassionato da un algoritmo, finendo per scegliere solo fino a un certo punto. E vogliamo più serie tv, senza ombra di dubbio. Vogliamo selezionare quello che ci pare, fino a renderci conto che un’ampia scelta non significhi necessariamente avere un maggiore controllo sulle opzioni a disposizione: i trend dominanti finiscano comunque per fare la differenza, nella maggior parte dei casi. Vogliamo di più, vogliamo tutto, lo vogliamo subito. E i produttori ci vengono dietro scaltramente, facendo sì che siamo poi noi ad andar dietro a loro. Ma la nostra mente è ormai cambiata, nell’era di internet e degli smartphone: pur senza scadere nella sterile retorica, necessitiamo di stimoli continui, incalzanti, imperterriti. Non abbiamo più la pazienza necessaria per dare tempo a un prodotto, qualunque esso sia. E ci perdiamo in uno swipe dopo l’altro, una serie dopo l’altra. Manco fossimo su Tinder, alla ricerca del match ideale.

Tutto deve convincerci, subito. E allo stesso tempo lasciarci andare, a distanza di poco tempo. Cercare un flirt, più che una relazione solida. Abbuffarci in un rassicurante fast food, invece di scommettere su un ristorante gourmet. Chi produce la musica lo sa: le canzoni sono sempre più corte e il tempi del progressive che imperversava negli anni Settanta sembrano distanti anni luce. Altrettanto fa chi produce una serie tv: sono sempre di più, durano sempre meno e vengono fruite in modi completamente diversi rispetto al passato. Netflix, giusto per parlare di uno dei principali leader attuali del settore, l’ha capito meglio di chiunque altro. E a tal proposito, vi riproponiamo un virgolettato che avevamo già riportato in un approfondimento di qualche mese fa, dedicato alle stagioni sempre più brevi delle serie tv e alla fruizione crescente attraverso gli smartphone:

Le sessioni di visualizzazione mobile tendono a essere più brevi: la visualizzazione a lungo termine sui dispositivi mobili sta aumentando man mano che gli schermi dei telefoni diventano più grandi, ma il 47% di tutto il tempo di visualizzazione di video mobili viene ancora speso per clip di durata inferiore a 20 minuti, secondo dati recenti dal fornitore di piattaforme video Ooyala. Inoltre, il 39% del tempo di visualizzazione è attribuibile a clip di cinque minuti o meno.

Arriviamo quindi al punto. Perché parleremo a nostra volta della durata media sempre più breve delle serie tv, ma concentrandoci su un genere specifico: le comedy. E domandarci se possa essere un bene o meno che siano sempre più corte, con un numero sempre più ridotto di episodi per stagione.

Seinfeld

Un tempo c’era Seinfeld. Composta da 180 episodi distribuiti su nove stagioni in onda dal 1989 al 1998, ha presentato dalla terza in poi dei pacchetti di puntate oscillanti tra i 22 e i 24, a eccezione delle prime due composte, rispettivamente da 5 (con un pilot è profondamente distaccato dalle successive) e 12. È un esempio, ma questa è stata la norma con rare eccezioni per gran parte della storia delle serie tv comedy: nel caso in cui il network decidesse di scommettere su una nuova produzione senza sbilanciarsi eccessivamente, la prima stagione era una sorta di beta, un cantiere aperto in cui proporre una base ridotta di episodi, salvo poi rilanciare con canoniche stagioni da 20-24 episodi (spesso pure oltre) in caso di successo. Se invece il network credeva fino in fondo sulla produzione neonata, si partiva subito in quarta con una stagione “piena”: per dirne una, ma potremmo fare svariati esempi in questo senso, la prima stagione di Willy, il Principe di Bel-Air, distribuita dalla NBC al pari di Seinfeld in un arco temporale quasi perfettamente sovrapposto (1990-1996), contava addirittura 25 episodi. Tantissimi, ma non troppi. E lo capiremo tra un po’, il motivo.

Questa era la regola, una volta. E questa è andata avanti fino all’avvento, lo sviluppo e la fine della della cosiddetta “golden age” delle serie tv, dal 1998 al 2014, dalla prima puntata de I Soprano all’ultima di Breaking Bad.

Dopo, qualcosa è cambiato e le comedy (sit-com o meno che fossero) si sono progressivamente accorciate così come si sono ristrette le serie tv d’ogni genere, ma non ce ne siamo resi conto subito. E nel caso delle comedy ce ne siamo accorti ancora più tardi, senza capire che questo fosse un bene per le serie drammatiche ma una rovina per quelle comiche.

Il trend è mutato, ma le principali comedy e sit-com in onda fin dagli anni precedenti e conclusesi in tempi più recenti, sono sopravvissute attraverso formati similari al passato. The Big Bang Theory è un ottimo spunto: in onda fino al 2019, è andata avanti per la bellezza di 12 stagioni e 279 episodi, distribuiti su una prima stagione più corta (17) e le successive sempre oscillanti tra i 23 e i 24 episodi. Quasi al pari di Modern Family, conclusa nel 2020, la cui avventura seriale è andata avanti per 250 episodi e stagioni da 24 e 22 episodi, salvo l’ultima composta da 18. Mentre due delle migliori comedy di sempre si avviavano verso la loro fine naturale, però, il mondo delle comedy mutava, si evolveva, cambiava anche nell’essenza del suo Dna: alle vecchie sit-com si sono sostituite produzioni dall’orizzontalità più marcata, a discapito di una verticalità spesso più sfumata. Dalle multicamera di un tempo si è passati alle moderne single camera. E alla ricerca di una comicità leggera, essenziale e piacevolmente frivola si è sostituita una maggiore profondità, tale da sforare spesso nel terreno del drama. Dando così vita all’ibrido che ha quasi fagocitato il genere, come testimoniato anche dalle candidature alle ultime edizioni degli Emmy: le dramedy.

Se si vuole osservare con maggiore attenzione il passaggio generazionale avvenuto dalle vecchie sit-com alle attuali comedy dalle sfumature drama, un ottimo esempio, su un doppio filo, è una serie tv uscita nel 2022, una delle sorprese più piacevoli dell’anno: Reboot. Realizzata da Hulu e distribuita in Italia da Disney Plus, la comedy, scritta da Steven Levitan (già autore di Modern Family) racconta la storia travagliata della produzione del reboot di una popolare sit-com in onda 20 anni prima, evidenziando le mutate esigenze narrative e le profonde diversità di vedute tra i due autori (coi relativi team di sceneggiatori) della nuova produzione: un padre, ancorato ai vetusti dettami della serialità d’un tempo, e una figlia che al contrario lotta per innovare il genere e apportare un deciso cambiamento, attraverso una riscrittura sostanziale dei personaggi e delle situazioni che vivono. Al di là di ogni possibile valutazione sulla buona riuscita o meno della serie, è interessante notare un elemento che la accomuna alla stragrande maggioranza delle comedy attualmente in giro: la prima e attualmente unica stagione ha la miseria di otto episodi da mezzora circa. Pochissimi.

Non si tratta di un’eccezione ma di una nuova regola che coinvolge ormai tutti, o quasi. E rappresenta un problema. Otto episodi per una nuova comedy non possono essere in alcun modo uno spazio indispensabile per farsi conoscere, affermarsi, avere il tempo per costruire un presupposto narrativo davvero solido e, parallelamente, offrire una definizione preliminare soddisfacente dei personaggi. Non a caso Reboot è stata accolta bene, non benissimo. Ha un potenziale sconfinato che potrebbe farne un riferimento del genere nei prossimi anni, ma a diversi mesi dalla messa in onda non ha ancora ottenuto manco il rinnovo per una seconda stagione e rischia, concretamente, di trasformarsi nell’ennesima comedy fallimentare dell’ultima decade. Rischierebbe, per esempio, di fare la stessa fine fatta da un’altra intrigante serie tv comedy cancellata nei mesi scorsi: Mr. Mayor, produzione NBC nata dall’autorevolissima firma di Tina Fey, fermatasi dopo due stagioni da dieci episodi. O che potrebbe fare presto Blockbuster, ambiziosa serie tv comedy targata Netflix scritta da Vanessa Ramos (già sceneggiatrice delle acclamatissime Brooklyn Nine-Nine e Superstore) e che vede tra i protagonisti nomi del calibro di Randall Park e Melissa Fumero, accolta a dir poco tiepidamente nel corso del primo ciclo da dieci episodi.

Allarghiamo l’orizzonte: Reboot non rischia solo di fare la fine di Mr. Mayor, una comedy che tutto sommato aveva ancora tutto da dimostrare e che stava iniziando ad emergere con la propria identità solo nel momento in cui è stata cancellata, ma anche di fare la fine che hanno quasi fatto tre comedy del passato che, al contrario, sono diventate tre capisaldi del genere, tra i migliori esempi nella storia della serialità: la già citata Seinfeld, The Office e Parks and Recreation. Unite da due fili conduttori: il network (la NBC, e non è un caso) e, soprattutto, il numero ridotto di episodi nelle stagioni d’apertura. La prima di Seinfeld ne contava 5, mentre The Office e Parks and Recreation si erano fermati a 6: pochissimi. Perché le menzioniamo? Perché tre tra le migliori comedy di sempre rischiarono di fermarsi qua, alla partenza, e arrivarono a un passo dalla cancellazione dopo una manciata di episodi. Poi sono diventate quello che sono diventate, fino ad accreditare la nostra tesi: le comedy hanno bisogno di tempo, tanto tempo, per emergere, affermarsi, farsi conoscere fino in fondo e lasciare un segno profondo. Tangibile e indimenticabile.

Ovviamente successi e insuccessi delle serie tv comedy non sono mai legati esclusivamente al numero di episodi a disposizione: chi ha qualcosa di davvero nuovo da raccontare riesce spesso a emergere comunque. Ma la variabile è spesso decisiva e penalizza svariate produzioni che avrebbero meritato maggiori fortune. Come detto, comedy e sit-com necessitano di un tempo maggiore rispetto alle serie d’altri generi per costruire un percorso in cui proiettare le caratterizzazioni e le evoluzioni dei personaggi, prioritari anche rispetto alle stesse trame, per trovare la propria via. Oggi, però, quello spazio non c’è più. I network puntano su un numero nettamente maggiore di titoli: lo spazio per le singole produzioni si è ridotto, la scelta si è ampliata a dismisura e il pubblico si sparpaglia tra vari titoli, limitando anche la possibilità di vivere un’esperienza in qualche modo universale. Un pubblico più scafato, per certi versi più maturo e consapevole di cosa voglia da una comedy. Ma allo stesso tempo un pubblico più frenetico che non concede più una seconda occasione, molla una comedy nell’arco dei tre episodi iniziali se non si ritiene soddisfatto e passa al titolo successivo senza troppi pensieri. Un pubblico più impaziente, più distratto e meno concentrato, capace di promuovere o bocciare una serie nell’arco di pochissimi minuti. È questo a dettare davvero le regole del gioco, oggi. Più di tutto. E le serie tv si son dovute evolvere per assecondarlo ed evitare l’incombente ghigliottina, fin dal momento del concepimento. Quasi fossero britanniche al pari di Derry Girls, The Office UK o The IT Crowd: loro sì, abituate a dare il meglio di sé da sempre nell’arco di poche puntate.

Il “format smart”, oscillante tra i sei e i dodici episodi, è costretto quindi a concentrare la tensione narrativa nell’arco di pochissimo spazio e ha finito con lo schiacciare le sit-com più pure (già in declino da prima), favorire le comedy meno canoniche e ancora di più le dramedy, genere più conformabile in quel senso. La verticalità è ormai vista negativamente, quasi fosse una perdita di tempo, e si stigmatizza quindi il “fillerismo”. A favore di un’orizzontalità più ficcante e scenica, fin da subito. A differenza delle sit-com del passato, in cui le trame erano messe al servizio di personaggi che nascevano, crescevano e si sviluppavano in qualche modo insieme a noi stessi nel corso degli anni. Costruendo un percorso affine, riconoscibile ed emotivamente più forte, saldato anche dagli appuntamenti settimanali a dispetto degli attuali blocchi prevalenti, più funzionali in quel senso. Oggi, viceversa, sono i personaggi a esser stati messi a servizio delle trame delle comedy, costrette a dare il meglio di sé fin dai primissimi episodi e ritrovarsi per questo a correre, abbozzare senza grande convinzione, appoggiarsi alle certezze narrative del passato o cercare spesso il colpo a effetto attraverso delle forzature. Non lavorano più, in prevalenza, sulla costruzione del contesto, delle dinamiche e dello spessore dei personaggi. E per questo falliscono. Oppure, quando si tratta di serie tv comedy di successo dal potenziale narrativo più o meno espresso, non riescono ad andare abbastanza in profondità nella quotidianità dei personaggi e renderli, in qualche modo, dei nostri veri compagni di vita. Parti attive delle nostre giornate, fonti di intrattenimento continue e non solo occasionali. Insomma: partner di una grande storia d’amore, non solo di un intenso flirt.

Pensate a tre tra le migliori comedy degli ultimi cinque anni: Ted Lasso, Mythic Quest e What We Do in the Shadows. Sono belle, bellissime. Senza esagerare, degli instant cult. Premiatissime, a ragione. E amatissime, dal pubblico. Verranno però mai ricordate al pari di una Friends o delle varie grandi sit-com espresse nel corso di mezzo secolo dalla serialità globale? Con ogni probabilità, no. E non per loro demeriti, affatto. Bensì per un’oggettiva mancanza di tempo. Abbiamo e avremo modo di vivere con loro una grande avventura, ma non il processo di crescita, emotiva ed esistenziale, che abbiamo affrontato coi migliori protagonisti espressi nella storia del genere. E questo è un rimpianto, gigantesco. Pensate a quanto sono state grandi Ted Lasso, Mythic Quest e What We Do in the Shadows con, rispettivamente, 22 (in due stagioni), 25 (in tre, una delle quali attualmente in corso) e 40 episodi (in quattro), e a quanto lo sarebbero state col vecchio formato delle comedy, tra i 18 e i 25 episodi a stagione. Per più stagioni, per più anni. Ogni volta a casa nostra, con noi. Sarebbero state diversissime, senza alcun dubbio. E avrebbero sicuramente avuto più problemi, ma avrebbero avuto anche una vera occasione per issarsi ai livelli dei grandi cult del genere. Un peccato perché il pubblico, seppure più distratto, pretenzioso e meno fedele di un tempo, ci sarebbe ancora. E lo dimostra una banalissima considerazione: Friends è finita da ormai diciotto anni, eppure continua a essere una delle serie tv più viste in assoluto.

Come mai? Ne avevamo già parlato in passato e il fatto che rappresenti per molti versi il manifesto di un’intera generazione ha sicuramente offerto un contributo importante, ma al di là delle valutazioni più o meno oggettive sulla bellezza assoluta di una sit-com a dir poco straordinaria, il fattore tempo ha sicuramente giocato un ruolo importante: Friends copre un intero decennio (1994-2004) per dieci stagioni e 236 episodi. Episodi talvolta fantastici e talvolta non certo indimenticabili, più o meno belli con passaggi a vuoto più o meno evidenti, ma questo conta fino a un certo punto: la verità è che Joey, Rachel, Monica, Chandler, Ross e Phoebe sono diventati parte della nostra quotidianità. E le loro divertentissime esperienze di vita hanno finito con l’unire padri, figli e persino nipoti: Friends, oggi, non è vista e amata solo da chi aveva tra i venti e i trent’anni negli anni Novanta. Oggi è vista e amata anche da chi vent’anni li ha nel 2022 e nel 1994 non era manco nato. Così come accade, in misura diversa, per tante delle migliori sit-com che hanno caratterizzato l’ultimo trentennio, centrando un’idea di universalità che non era mai stata manco nella testa degli autori. E risponde ancora a un’esigenza comune: abbiamo bisogno di ridere, di leggerezza. Non solo dei drammoni. Ma diamo a Friends e le altre un’opportunità che a tante comedy attuali non stiamo dando o non hanno mai avuto modo di conquistare: le molliamo dopo pochissimi episodi, mentre diamo maggiori opportunità ai cult, convinti dalle esperienze di un amico o degli esperti del settore.

Pensateci: se The Office fosse uscita oggi e aveste visto i primi sei episodi senza avere idea di cosa sarebbe diventata successivamente, l’avreste continuata lo stesso? I no, probabilmente, superano i sì.

Non è un caso quindi che le comedy più in voga oggi siano le serie ancorate ai vecchi format, con rare eccezioni: le storiche (Friends), quelle di terzultima generazione (The Office, How I Met Your Mother) o quelle di penultima (The Big Bang Theory e Modern Family, ma anche New Girl e Brooklyn Nine-Nine): i fattori, come detto, sono molteplici ma l’elemento tempo, con una combinazione di uno scarso numero di episodi (tra gli 8 e i 12) e l’eliminazione, in tanti casi, dell’appuntamento settimanale hanno fatto a pezzi un genere ancora estremamente necessario e ricercato, talvolta persino dominante. Nonostante tutto. Nonostante noi, spettatori difficili. Un quadro per certi versi desolante: sembriamo immersi in un mondo troppo piccolo per le sit-com più grandi, in cui le sit-com più grandi servono però ancora. Eppure sembra si stia smuovendo qualcosa in questo senso, attraverso un’inversione di tendenza. Non solo se si pensa a Young Sheldon, lo spin-off di The Big Bang Theory, rarissimo caso di una single camera da 18/20 episodi ad annata in onda da ormai sei anni. Pensiamo anche alla prima stagione da 10 episodi di How I Met Your Father, per esempio, costretta a concentrare in pochissimo tempo una trama che avrebbe avuto bisogno del triplo delle puntate, e al fatto che ne corrisponderà una seconda da 20, sulla falsariga dei grandi titoli d’un tempo. Altrettanto si può dire di un’altra comedy promettentissima, Abbott Elementary, passata dai 13 della prima agli attuali 20 della seconda in corso.

Forse i network, dopo i troppi fallimenti degli ultimi anni, stanno finalmente capendo cosa fare e stanno capendo che il pubblico è sì cambiato, ma se coinvolto con la giusta determinazione c’è ancora, pure nell’impaziente 2022. Hanno preso coraggio, hanno scommesso su un un gruppo di grandi personaggi con una grande storia. Hanno creato un presupposto che speriamo potrà essere valorizzato fino in fondo. A quel punto sì, ci saremo. E saremo tanti, meno di un tempo ma abbastanza per sostenere un nuovo cult. Vorremo di più. Vorremo tutto. Lo vorremo subito. Ma sapremo anche fermarci, al momento giusto. E riscoprirci un po’ meno diversi ai nostri genitori di quanto pensassimo di essere, dentro una fragorosa risata.

Antonio Casu