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Long live the King, ma fermate Under The Dome

Non esiste un modo lineare di parlare di qualcosa che riguarda, direttamente o indirettamente, Stephen King. Il grande scrittore del Maine, infatti, è solito regalare nei propri libri emozioni contrastanti, un grande e nutriente minestrone a base di riflessioni, tristezza, inquietudine e incertezza. Non fa eccezione The Dome, opera datata 2009 di genere fantascientifico dalla quale è stata tratta la serie televisiva Under The Dome, ideata e avviata da Brian K. Vaughan. Il serial in questione era di certo uno dei più attesi degli ultimi anni, ma dal 2013 – anno dal quale è in produzione – le sue (finora) due stagioni hanno dato vita a solide fondamenta sulle quali è inevitabile poggiare interi edifici di polemiche.

Come ogni novel di King che si rispetti, i presupposti sono dati da una buona dose di terrore e dalle relazioni tra i personaggi, quasi sempre complessi, che si alternano tra le pagine. Chester’s Mill è una tranquilla cittadina americana che una bella mattina di Ottobre si ritrova inglobata all’interno di una enorme cupola che la isola dal resto del mondo, una situazione claustrofobica che con lentezza arriverà a logorare psicologicamente ogni singolo protagonista. Il protagonista è Dale Barbara, detto Barbie, reduce dell’esercito americano in missione nella sonnecchiante cittadina teatro del romanzo.

 LA DELUSIONE DELLA CUPOLA – Per quanto il libro sia effettivamente gradevole e tenuto su da una certa dose di suspense, la serie tv fa storcere parecchio il naso, specie nell’analisi psicologica dei personaggi, da sempre cavallo di battaglia dell’autore di capolavori come It, 22/11/’63 e Misery. La grande colpa è da assoggettare al creative team, reo di non aver saputo trasmettere in televisione la stessa aura tenebrosa presente nel romanzo e di non aver sfruttato appieno la caratterizzazione dei character. Il romanzo, infatti, pur non essendo uno dei migliori del Re del Brivido, è sicuramente un’opera di ampia portata popolare, una storia che regala spunti interessanti per la creazione di uno show televisivo. Show che, nostro malgrado, si è rivelato deludente sotto molteplici aspetti.

Nonostante le ottime premesse, la narrazione si trascina tra i frame in maniera blanda e poco serrata e allo spettatore medio non regala (quasi) nulla, finendo con l’annoiare e mandando all’aria un quantitativo di pazienza non indifferente. La prima stagione, composta da tredici episodi, è un susseguirsi di eventi fantascientifici che però non trovano un vero punto di incontro e che sembrano snodarsi in maniera autonoma senza una reale trama orizzontale. Molti hanno criticato l’identità stessa degli avvenimenti che hanno permesso alla storia di proseguire, ma non sono dello stesso avviso: parliamo di un telefilm di fantascienza, ciò vuol dire che se spiegato e plausibile può accadere davvero di tutto; ci sarebbe invece da ridire – e molto – sul modus operandi televisivo che ha portato alla scoperta di quelli che nei piani degli autori dovevano essere i punti sensibili della first season.

WHAT’S THE POINT? – Si assiste così, impotenti, all’ennesima trasposizione televisiva del tutto errata delle grandi opere di King che, lo ribadisco, dà vita a una storia interessante, ma che non è riuscita a trovare la propria dimensione televisiva, finendo con il ricreare solo parzialmente l’atmosfera di un romanzo che poteva essere compreso e impacchettato per i riflettori in maniera più coerente. Le due macro storyline della prima stagione sono il conflitto tra i personaggi principali e la reale presenza della cupola, oggetto fondamentale dell’opera. Ci si rende presto conto di avere tra le mani del materiale per una storia che potrebbe svelarsi con costanza, ma dopo il pilota ci si accorge già che qualcosa non va: i personaggi sembrano figurine senza caratterizzazione e colui che dovrebbe essere il leader, quel Dale Barbara dal nomignolo quasi comico, non riesce a trasmettere ciò che la sua controparte cartacea sbatte più volte dinanzi agli occhi del lettore: l’adrenalina e l’angoscia.

Da strapparsi le unghie la characterization affibbiata al resto del cast: personaggi quasi completamente svuotati di anima si danno il cambio sullo schermo in una lunghissima prima stagione e continuano imperterriti anche durante la seconda, mostrando solo rari e quasi del tutto imperscrutabili scorci di umanità dispensati lungo episodi interminabili, stantii, soffocanti.

Il finale della prima stagione tenta un sussulto con l’espediente di fornire alla cupola una sorta di scintilla vitale, ma già dal primo episodio della seconda stagione ci si accorge che il registro non è cambiato e che non c’è davvero nulla di nuovo sotto il sole (pardon, sotto la cupola) su cui valga la pena scrivere, a meno che non desideriate un effetto sonnifero.

CONCLUSIONI – Ho avuto modo di seguire entrambe le stagioni e personalmente sono rimasto molto, molto deluso. Il cast non è all’altezza di ruoli così complessi come quelli disegnati da King, la produzione ha dato vita a una sceneggiatura poco emotiva e molto, molto caotica e tutta la disperazione e l’inquietudine del libro è scivolata via come uno strato di polvere spinto da un piumino. Qualcuno, parlandone anni fa, definì Under The Dome il legittimo erede del capolavoro assoluto Lost, ma sembra che l’azzardato paragone della serie abbia portato solo ansia e scarsi risultati, proprio come accadde ai vari Flashforward, Supernatural e via dicendo.

Con l’amaro in bocca, questo è tutto.

Quel che so è che ci sarebbe da sbattere la testa contro la cupola fino a perdere i sensi.