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I quattro atti di Beckham raccontano l’uomo dietro l’icona – Recensione della docuserie Netflix

ATTENZIONE: l’articolo contiene spoiler su Beckham, la docuserie presente su Netflix che ripercorre la carriera del calciatore inglese.

Non è tanto una questione di talento da mettere a riposo – che, diciamolo pure, è uno spreco incalcolabile per le nostre pupille assetate di geometrie calcistiche -, quanto piuttosto lo stress al quale si sottopone un fisico che ha pompato per una vita adrenalina e che all’improvviso smette, si rilassa, si rilascia. È uno stress al contrario, quello del caldo torpore della pensione che spinge gli ex calciatori ad adattarsi a una vita ordinaria, all’insegna della famiglia, delle piccole faccende domestiche, della noia casalinga, mettendo da parte l’eccitazione dei prati verdi e degli stadi pieni zeppi di gente. Beckham, la docu-serie di Fisher Stevens (lo abbiamo visto in Succession) disponibile su Netflix dal 4 ottobre, accende i motori della macchina da presa nelle desolate lande di una casa immersa nel verde, seguendo le movenze precise e scrupolose di un fuoriclasse del mondo del calcio che con indiscutibile accuratezza si dedica alla costruzione dei suoi alveari. David Beckham, vincitore di sei Premier League, di una Champions League, di una Coppa Intercontinentale, di una Liga, una Ligue 1 e di una Major League Soccer nella sua carriera di calciatore, oggi fabbrica miele (e qualche anno fa ha anche creato una linea d’abbigliamento ispirata a Peaky Blinders). Per la sé, per la sua famiglia, per hobby. È una delle tante occupazioni che la star del calcio si è ritagliata in questo secondo tempo della sua vita, iniziato ormai da dieci anni, dopo un ventennio passato sulla cresta dell’onda.

Beckham

L’adrenalina deve lasciare il posto all’apatia, il trambusto viene sommerso dalla quiete. Il caos, il frastuono e lo scompiglio degli stadi più affollati del mondo si dissolvono in sottofondo, lasciando il calciatore solo con i suoi ricordi, l’uomo solo con il suo passato.

Beckham è un racconto intimistico della vita da calciatore del capitano della nazionale inglese. Un talento sbocciato in fretta, un golden boy da prima pagina, un brand prima ancora che un giocatore di calcio. In quattro atti, Fisher Stevens – che conosceva poco di David Beckham prima di dedicarsi alla realizzazione del documentario sulla sua carriera – ha provato a condensare tutta la parabola umana del fuoriclasse che per primo ha messo insieme cultura pop e calcio giocato, vita pubblica e vita privata, vetrina e talento. È una lunga chiacchierata, con tanti protagonisti – i genitori di David, i suoi ex compagni di squadra, i suoi allenatori, ovviamente Victoria – che danno al racconto un’impronta corale. Somiglia più a una confessione che a un colloquio dietro la macchina da presa. Percorrere a ritroso la propria carriera, riaffacciarsi sul passato e sui ricordi, tirar fuori stati d’animo rimasti personali per tanto tempo, diventa una sorta di catarsi psichica che mette a nudo le proprie fragilità. Un viaggio terapeutico, un’occasione per guardarsi dentro. È così che i coniugi Beckham hanno inteso la possibilità offerta da questa docu-serie di raccontare e di raccontarsi, creando un prodotto che ha destato subito l’attenzione del pubblico e che, nel giro di pochi giorni, è balzato in cima alle classifiche dei titoli più visualizzati di Netflix.

È un bel viaggio, Beckham. Dai campi senza linee dei sobborghi di Londra ai flash accecanti dei grandi palcoscenici mondiali.

Tutto è partito da quel gol da centrocampo di quasi trent’anni fa, sotto lo sguardo severo di sir Alex Ferguson, che guardava il suo pupillo realizzare una delle reti più belle della storia del calcio inglese. Il modo in cui il piede impatta con la palla, lo sguardo proiettato già oltre, il numero 10 sulla maglia dello United. La carriera di David Beckham è decollata da quel momento lì, sotto l’ala protettiva del “boss”, nel clima infuocato della Premier League degli anni Novanta-Duemila. La “classe dei ’92” che soffiava il posto ai veterani del Manchester United, i primi titoli, le prime vittorie, le prime pressioni. Tutti si chiedevano perché a quel biondino fosse stato concesso di entrare in prima squadra quando era ancora ragazzetto gracilino, in anticipo sui tempi. Poi, quando prendeva possesso della fascia e impacchettava cross per i compagni di squadra, la risposta arrivava, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Era un giocatore di grande classe, David Beckham. Maestro nel battere le punizioni, nel calcolare le geometrie dei suoi lanci lunghi, nell’indovinare le letture di gioco. Grazie a un archivio vastissimo di riprese di vecchie partite, la regia di Beckham è riuscita a sovrapporre le movenze del David adulto con quelle del bambino che giocava sotto lo sguardo attento del padre, rimarcandone la continuità, misurandone il talento.

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Ma David Beckham ha fatto parlare di sé non solo per le traiettorie dei suoi assist.

È stato il primo calciatore a diventare un brand e a sfruttarlo. Il matrimonio con Victoria Adams, la celebre PoshSpice, occupa un posto preponderante nella vita di David e, di conseguenza, anche nello spazio di questa docu-serie. Nel momento in cui divenne pubblico il suo fidanzamento con una delle star della musica internazionale, la figura di Beckham cambiò. I look dello Spice Boy finirono sulle prime pagine, le uscite galanti con Victoria divennero argomento di discussione nei bar e dalla parrucchiera. Il nome da dare al primo figlio, le vacanze al mare, i locali da frequentare non furono più un fatto privato. Vita privata e vita pubblica del numero 7 dello United si fusero in un tutt’uno. Persone che non avevano mai visto una partita di calcio nella propria vita, conoscevano comunque David Beckham e sapevano come portava la cresta, la giacca, i pantaloni, i calzettoni, gli occhiali da sole. Le giocate, i gol, gli assist, le partite vinte divennero così secondarie: David Beckham era diventato un fenomeno pop, un brand vero e proprio da monetizzare e sfruttare. A un certo punto, smise semplicemente di essere trattato come un giocatore di calcio e divenne una merce. Prelibata, ambitissima, sopraffina, ma pur sempre una merce. Il documentario Netflix prova ad andare oltre il fenomeno mediatico e a concentrarsi invece sull’uomo. La lunga conversazione con la stella del Manchester United ha fatto emergere ricordi e stati d’animo che forse lo stesso Beckham non si era mai preso il tempo di metabolizzare ed esplorare davvero fino in fondo. Quando non esistono filtri tra la tua vita privata e il personaggio pubblico che ti sei costruito, quando vivi in una vetrina a cielo aperto, il rischio è che poi ogni cosa ne risulti amplificata, nel bene e nel male.

È con un pizzico di tristezza che si ripercorrono alcune fasi della vita di Becks. È come se la bolla scoppiasse per la prima volta e vedessimo tutto quello che c’è sotto. Che c’è sempre stato sotto. L’inquadratura in primo piano può essere preparata, studiata, ma difficilmente mente. Colpisce, in particolare, quel pizzico di disagio che una superstar del suo calibro prova ancora davanti alle telecamere, che lo hanno accompagnato per tutta la vita ma che hanno comunque il potere di bloccarlo, di spingerlo a tenere al sicuro una parte di sé, quella meno infrangibile. Fa anche tenerezza, Beckham. Specie in alcuni frangenti. L’episodio che racconta l’uscita dell’Inghilterra dalla Coppa del Mondo nel ’98 è un pugno allo stomaco. Lì si intravede il lato nascosto della stella del calcio, la sua fragilità, il suo essere vulnerabile. È straordinario vedere come Beckham fatichi ancora a parlare di quel periodo e dei sensi di colpa che, dopo più di vent’anni, continuano a tormentarlo. Ci pensa Victoria a parlare al posto suo. La Spice Girl in questa docu-serie è davvero un fiume in piena e non risparmia nessuno. Così emergono poco alla volta le difficoltà e i momenti di tensione che una delle coppie più chiacchierate del Regno Unito ha vissuto mentre tutto il mondo parlava di loro.

La fame di giocate, la cavalcata per la conquista della Champions League, la rivincita presa qualche anno dopo con un gol su punizione allo scadere valido per la qualificazione dell’Inghilterra ai Mondiali, assumono quindi un significato diverso, di rivalsa personale. Beckham è uno che si è preso spesso le prime pagine dei giornali, ma che raramente è riuscito a comunicare ciò che aveva dentro. L’addio al Manchester United e a sir Alex Ferguson deve averlo lacerato, da qualche parte. La nuova vita ai Galacticos lo ha cullato per un po’, ma le testimonianze di questa docu-serie ci lasciano pensare che, in realtà, l’uomo Beckham abbia sempre avuto un po’ nostalgia di casa. La sua carriera da fuoriclasse del calcio è di fatto finita con la partenza per gli Stati Uniti, anche se avrebbe vinto ancora una Ligue 1 in Francia e un campionato a Los Angeles. Il prodotto realizzato da Fisher Stevens con tutto il materiale a disposizione parte sicuramente dall’esaltazione del campione – che ha voluto e approvato il progetto -, ma poi tenta di intrufolarsi anche nella sua sfera più intima, quella di cui i giornali hanno preferito non parlare. Lo fa con la delicatezza di chi non vive sulla propria pelle la passione totalizzante del calcio – Stevens non è un tifoso e conosceva poco del Beckham calciatore – e si focalizza sul personaggio, lasciandogli uno spazio per essere se stesso e per fare i conti con il proprio passato. È anche un prodotto ironico, per certi versi, e un tantino nostalgico. Perché, dietro a tutte le chiacchiere e ai gossip, dietro alle scelte di marketing, agli scatti dei paparazzi, ai giudizi affrettati delle persone, agli insulti degli haters e ai flash delle macchine fotografiche, quel che resta è un ragazzo della middle-class inglese che ha realizzato un sogno e che ha giocato un calcio che lui stesso ha contribuito a cambiare. Quattro atti di una serie che vale la pena guardare, fino al triplice fischio.