La scommessa di Vince Gilligan
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Quando Vince Gilligan annuncia un nuovo progetto, il mondo delle serie TV si ferma. Dopo Breaking Bad e Better Call Saul, ogni suo passo è seguito come quello di un autore che non solo ha plasmato la televisione moderna, ma che ha anche ridefinito l’idea stessa di narrazione popolare. Con Pluribus – o meglio PLUR1BUS, nella grafia scelta dagli autori – Gilligan sceglie di compiere un salto nel vuoto. Non più il crimine al centro del racconto, non più la tensione morale di un uomo che si trasforma nella versione peggiore di se stesso, bensì la fantascienza.
Un genere che, almeno sulla carta, sembra distante anni luce dalla polvere del New Mexico e dal realismo crudo di Walter White. Eppure proprio questo rende la sfida più ardua e affascinante. Non è soltanto una questione di aspettative dei fan, che inevitabilmente confrontano ogni annuncio con l’ombra gigantesca di Breaking Bad. È che questa volta la posta in gioco è tematica: Gilligan non ci parla di droga, potere e corruzione, ma di concetti metafisici, reali, nostri, come la felicità, infelicità, realtà e paradosso.
Fare il passo da un dramma criminale iperrealistico a un dramma fantascientifico visionario significa dover convincere il pubblico su un terreno molto meno solido, dove la sospensione dell’incredulità è fragile e tutto dipende dalla forza della scrittura. È qui che Pluribus diventa più complesso di qualunque serie precedente: perché raccontare un uomo che cuoce metanfetamine è difficile, ma raccontare una donna che deve salvare il mondo dalla felicità è un atto di pura audacia narrativa.
Pluribus: un incipit paradossale
Ogni serie vive o muore dal suo incipit, e in questo caso Gilligan ha scelto un’apertura che non concede compromessi. Carol, la protagonista interpretata da Rhea Seehorn (star di “Better Call Saul”), è descritta come “la persona più infelice della Terra”. Un’etichetta che suona quasi ironica e crudele, ma che diventa subito il cuore pulsante della narrazione. In un mondo in cui l’industria culturale ci bombarda costantemente con promesse di felicità a portata di mano, l’idea di un personaggio che deve combattere proprio quella felicità appare come una lama affilata che taglia le convenzioni. La missione di Carol è chiara e paradossale: salvare il mondo dalla felicità stessa.
Non una minaccia esterna, non un antagonista definito, ma un’idea universale, apparentemente positiva, che si rivela pericolosa. Questo incipit ha il potenziale di diventare uno dei più memorabili della televisione contemporanea, perché rovescia le aspettative in maniera radicale. Laddove la narrativa classica costruisce eroi che combattono dolore, infelicità e ingiustizia, qui l’eroina è l’infelicità incarnata e il suo scopo è difendere il mondo da ciò che, superficialmente, tutti desideriamo.
È una contraddizione che apre scenari narrativi immensi: se la felicità universale diventa un pericolo, allora cosa significa davvero essere umani? Qual è il prezzo della gioia collettiva? E fino a che punto l’individualità può resistere davanti a un’utopia imposta? Gilligan sceglie di iniziare la sua nuova epopea da questo cortocircuito filosofico. E in questo, Pluribus ha già vinto la sua sfida più grande: costringerci a porci domande scomode prima ancora di accendere lo schermo.
Pluribus come allegoria
Il titolo stesso della serie è un indizio che non può essere ignorato. Pluribus richiama il motto latino “E pluribus unum”, inciso sul sigillo degli Stati Uniti e sulle monete americane: “da molti, uno”. Una frase che racchiude il concetto di unione collettiva, di fusione delle differenze in un’unica entità. Gilligan, da narratore ossessivo del dettaglio, non sceglie mai a caso i nomi delle sue opere. È probabile che questo titolo contenga la chiave tematica dell’intera vicenda. Se il mondo cambia misteriosamente nel primo episodio – come confermato dalle note di produzione – allora il cuore della serie potrebbe risiedere proprio nel conflitto tra la pluralità delle individualità e l’imposizione di un’unità artificiale.
Carol, l’infelice per definizione, diventa così l’ultimo baluardo contro la cancellazione della diversità. Salvare il mondo dalla felicità potrebbe significare preservare la possibilità stessa del dolore, della complessità, del dissenso: in altre parole, difendere l’essere umano da una sterilizzazione emotiva totale. In questa chiave, Pluribus si configura come un’allegoria potentissima: non si tratta soltanto di semplice fantascienza, ma di filosofia applicata al racconto televisivo.
Gilligan, che in Breaking Bad aveva già messo in scena la parabola morale di un uomo comune che scivola nel male assoluto, qui sembra voler affrontare il problema universale dell’umanità stessa. E il motto latino diventa il faro che illumina un racconto sulla tensione eterna tra collettività e individuo. Non più soltanto “crime drama”, ma “dramma dell’esistenza”.
Albuquerque sotto una nuova luce
Gilligan non tradisce le proprie radici e ancora una volta sceglie Albuquerque come palcoscenico della sua nuova storia. Ma questa volta la città del New Mexico non sarà il teatro di guerre di droga, di inseguimenti desertici e di laboratori nascosti. Sarà invece il punto di partenza per un mondo che cambia radicalmente sotto gli occhi degli spettatori. È un dettaglio fondamentale, perché la familiarità del setting – già iconico per chi ha amato Breaking Bad e Better Call Saul – servirà da contrappeso realistico a una trama che rischierebbe altrimenti di essere percepita come troppo astratta.
Gilligan gioca con la riconoscibilità di Albuquerque per condurci lentamente in una realtà alternativa, deformata, quasi aliena, che nasce però dalle stesse strade e dalle stesse atmosfere note al pubblico. È un modo per ancorare la fantascienza a un luogo concreto, evitando di cadere nelle derive di un immaginario troppo distante. La scelta di trasformare Albuquerque in un crocevia distopico suggerisce inoltre una lettura meta-narrativa: se la città era il simbolo del degrado morale nell’epopea criminale di Walter White, ora diventa il laboratorio in cui sperimentare la metamorfosi dell’umanità stessa.
La quotidianità che si incrina, il familiare che diventa sconosciuto: è questo il motore estetico di Pluribus (qui un criptico teaser). In altre parole, Gilligan reinventa Albuquerque come punto di rottura tra ciò che conosciamo e ciò che ci spaventa, trasformando il noto in ignoto senza mai abbandonare il proprio territorio narrativo.
Carol: il volto dell’infelicità
Il cuore di Pluribus è Carol, interpretata da Rhea Seehorn. Dopo aver dato vita al personaggio complesso e indimenticabile di Kim Wexler in Better Call Saul, Seehorn affronta ora il ruolo più radicale della sua carriera. Carol è “la persona più infelice della Terra”, ma al tempo stesso è l’eroina chiamata a compiere una missione che nessuno vorrebbe: salvare il mondo dalla felicità.
È un personaggio che sfida ogni convenzione. Non l’eroe positivo, non l’antieroe spietato, ma un volto segnato dall’apatia, dal dolore e dalla resistenza. Seehorn ha dimostrato di saper interpretare personaggi stratificati, capaci di muoversi tra fragilità e forza e proprio per questo appare perfetta per incarnare una figura così insolita. Carol non è soltanto una protagonista, ma una metafora vivente: è l’umanità che resiste all’omologazione, l’infelicità che diventa strumento di salvezza.
Gilligan sembra voler affidare a Seehorn un ruolo simbolico, che richiama le grandi figure della letteratura distopica – da Winston Smith di 1984 a Offred de Il racconto dell’ancella – ma che porta con sé un’originalità assoluta. Sarà attraverso il suo sguardo che vedremo il mondo cambiare, sarà attraverso la sua infelicità che capiremo cosa significa davvero la felicità. E in questo paradosso, Rhea Seehorn potrebbe trovare la performance che la consacrerà definitivamente come una delle attrici più importanti della sua generazione.
Il cast e gli altri personaggi
Accanto a Seehorn, Pluribus schiera un cast che promette di dare spessore e complessità alla narrazione. Karolina Wydra interpreta Zosia, un personaggio ancora avvolto nel mistero, che potrebbe incarnare l’altra faccia della condizione umana, forse il riflesso speculare di Carol. Carlos Manuel Vesga veste i panni di Manusos, il cui nome suggerisce già un ruolo enigmatico, forse legato a una dimensione di potere o di guida.
A completare il quadro, guest star di rilievo come Miriam Shor e Samba Schutte, che potrebbero arricchire la serie con apparizioni memorabili e ruoli chiave in episodi centrali. Nonostante i dettagli siano ancora pochi, è evidente che Gilligan stia costruendo un microcosmo di personaggi pronti a incarnare diverse sfumature della stessa tensione tematica: infelicità, felicità, individualità, collettività.
Ogni figura sembra destinata a rappresentare un archetipo, ma al tempo stesso a sovvertirlo, in linea con la scrittura che da sempre caratterizza l’autore. Se Breaking Bad ha saputo raccontare la metamorfosi di un uomo comune, Pluribus sembra voler raccontare le contraddizioni interne dell’umanità attraverso un ensemble che bilancerà protagonismo e coralità. È probabile che i rapporti tra i personaggi diventino il vero campo di battaglia, più ancora delle svolte fantascientifiche. E se il motto “da molti, uno” sarà davvero centrale, allora ogni personaggio avrà il compito di incarnare una parte della pluralità destinata a scontrarsi con l’unità forzata.
Produzione, episodi e distribuzione
Dal punto di vista produttivo, Pluribus si presenta come un progetto solido e ambizioso. La prima stagione sarà composta da 9 episodi, con i primi due in uscita il 7 novembre 2025 su Apple TV+, seguiti da un rilascio settimanale fino al 26 dicembre. La scelta di Apple TV+ conferma la volontà di puntare su contenuti di altissimo livello, con una distribuzione globale che potrà amplificare l’impatto della serie.
Gilligan figura come produttore esecutivo insieme a Sony Pictures Television, e la produzione ha superato gli ostacoli dello sciopero degli sceneggiatori del 2023, riprendendo le riprese tra febbraio e settembre 2024 ad Albuquerque. Interessante il dettaglio del titolo di lavorazione – Wycaro 339 – che dimostra quanto la serie sia stata sviluppata sotto stretto riserbo, evitando fughe di notizie.
Apple ha già confermato una seconda stagione, un segnale che indica fiducia assoluta nel potenziale narrativo e commerciale del progetto. In un panorama televisivo saturo di prodotti effimeri, questa sicurezza preventiva suggerisce che Pluribus non sia solo un esperimento, ma il nuovo cavallo di battaglia di Gilligan per ridefinire la serialità. La strategia di distribuzione settimanale, inoltre, mira a ricreare quell’attesa collettiva che ha reso epocali le serie del passato. Ogni venerdì, un nuovo pezzo del puzzle sarà svelato, mantenendo alta la tensione e favorendo il dibattito online. In un’epoca di binge-watching compulsivo, Pluribus sceglie la strada dell’attesa, e questa scelta potrebbe amplificare l’hype in maniera esponenziale.
Cosa aspettarsi dal futuro della serie?
Arrivati a questo punto, la domanda è inevitabile: cosa ci dobbiamo aspettare da Pluribus? La risposta non può che essere duplice. Da un lato, la serie promette di essere un viaggio fantascientifico visionario, un racconto che mescola paradosso e filosofia in una cornice narrativa inedita. Dall’altro, rappresenta il banco di prova più grande per Vince Gilligan: riuscirà a convincere un pubblico abituato al realismo sporco di Breaking Bad con una storia che si muove sul terreno instabile dell’allegoria? L’impressione è che Gilligan non voglia ripetere il passato, ma rilanciare.
L’eroina infelice, il mondo che cambia misteriosamente, il titolo che richiama l’unità forzata: tutto suggerisce che Pluribus sarà un’opera destinata a far discutere, a dividere, forse a scandalizzare. Ma proprio per questo potenzialmente rivoluzionaria. Se Breaking Bad era la serie che ci ha costretto a empatizzare con un uomo che diventava mostro, Pluribus potrebbe essere la serie che ci obbligherà a rivalutare il concetto stesso di felicità.
E nel farlo, potrebbe ridefinire cosa significa “dramma televisivo” nel ventunesimo secolo. L’attesa fino al 7 novembre sarà lunga, ma una cosa è certa: Pluribus non è solo un nuovo show, è una sfida culturale. Ed è proprio questo a renderla più complessa di qualunque serie precedente di Gilligan.










