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In realtà non è lui ad aver creato se stesso, ci ha pensato la sua storia, una malinconica trama scritta con inchiostro nero su pagine scure. Quello che vediamo è la parte calcata meglio e sofferta di più. Un personaggio così non può essere bello. Lo è fisicamente. Ma quello che c’è dietro è un fascino poetico, prettamente letterario, nulla a che fare con la mediocrità della bellezza etica o quella propria del valore morale. Thomas Shelby deve essere brutto, è molto più semplice capire e amare la bellezza, è quasi impossibile invece condividere la realtà disfunzionale di ciò che stona.

Andare via molto spesso è una scelta, per Thomas Shelby è stato un obbligo. La sua vita ricomincia esattamente lì dove tutto era stato interrotto, dove il tempo e l’oscurità di Birmingham sembrano essere rimasti sospesi. In attesa di qualcosa e di un leader capace di tornare per ridarle vigore.

La bellezza è ferma, cambia lentamente e non rivoluziona; l’anima di un dannato contaminata da tunnel chiusi e i suoi polmoni malati sì. In quei luoghi la perfezione sarebbe morta, non avrebbe avuto resistenza, ciò che è rimasto è il peggio, l’organismo che resiste, sporcandosi, vivendo di terrore e pericolo. Il buio e la paura sono i veri autori della storia di Thomas Shelby, per quanto quest’uomo possa andare avanti sono solo gli occhi a poter raccontare velatamente il passato, perdonando la vita nonostante in quel tempo fuggisse via sempre più velocemente.

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Sono gli occhi, iridi celesti che chiedono pietà di fronte alla morte, tutte quelle volte costrette a fronteggiare il rischio presente tornando indietro a rivivere quello che è stato. Pronte a dilatarsi di fronte a qualcosa di nuovo, solo per un po’ perché poi quasi per abitudine tornano a essere normali, così come il pericolo diventa via via più importante e necessario, quasi fosse ossigeno e motivo di lotta. Sono quelle stesse iridi a tradire una prematura sepoltura, mai vista e mai pienamente accolta. Viene sempre e solo schivata.

E’ questa la grande dote di Thomas Shelby: soffrire, resistere ma non saper dimenticare.

Una sofferenza che purtroppo esiste e preme per essere detta ed anzi urlata a piena voce. Eppure non viene rivelato nulla, niente viene abbandonato nell’aria come di solito succede per le parole sensate.Tutto sembra invece essere consapevolmente nascosto in quegli occhi, sostituti colpevoli delle pieghe sofferte nel tempo. L’unico senso soffiato via al posto delle parole è un fumo umile e temporaneo, grigio e caotico, come nube pesante ma passeggera, come una storia che fugge con calma, per voler andare via, ma in direzione del passato.

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Rimane lì a guardarla svanire, è l’unico modo che Thomas Shelby ha per perdersi nel tempo improvvisamente in silenzio, immobile, e ritrovarsi solo nell’istante successivo. Come se smarrirsi per un attimo in quei secondi sospesi nel vuoto gli ricordasse che è lui, nessun altro, a muovere le cose e che fermandosi tutto si ferma.
Thomas Shelby è il quadro di un Dorian Grey che viene nascosto in cantina, lì dove il suo whisky aspetta paziente. È lui il soggetto a cui le rughe e i segni del tempo si appiccicano, li sente tutti e con loro convive cercando di nasconderli, ma lui è il quadro e non c’è modo di tornare a essere belli se non uccidendosi.

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La bellezza esiste e non è Thomas Shelby. In lui c’è qualcosa di orribile, forse il suo passato, o forse la tendenza alla distruzione. Non si nasconde e persino ciò che non vorrebbe ricordare, quello che dà vita e alimenta la sua catastrofe, si manifesta a suo modo. Con occhi celesti che guardano una sfuggente nuvola di fumo riempire il suo vuoto.

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