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7 Serie Tv che sono quasi del tutto inadattabili in italiano

Come traducete cringe? La traduzione letterale, come certo saprete, è “imbarazzante”. Tuttavia nella traduzione, l’essenza del neologismo inglese svanisce. Perdiamo lo stridio e quell’espressione facciale disgustata che assumiamo quando pronunciamo la parola. Quando diciamo cringe, sul nostro volto appare la stessa espressione di chi sta masticando un pezzo di vetro al sapore di melma mentre sua zia tenta di raccontare una barzelletta sui carabinieri, proprio alla sua festa di compleanno e davanti a un branco di ragazzini sudaticci delle medie. Sebbene il termine sia traducibile, le suggestioni e le implicazioni di cui è carico lo rendono inadattabile in un’altra lingua. Così come accade per Peaky Blinders e tantissime serie tv straniere, tra cui le altre sei di cui parleremo. Nessuna di loro ha un doppiaggio scadente, tutto il contrario (qui trovate, ad esempio, 5 Serie Tv che hanno un doppiaggio italiano all’altezza dell’originale), ma nella traduzione italiana perdono la loro essenza. Più di ogni altra serie tv perché, di per sé, ogni operazione di traduzione implica una perdita più o meno importante. Ogni caso è diverso. Ci sono serie tv che in italiano mantengono intatta la loro natura, come Dr. House. Serie tv doppiate male o serie semplicemente inadattabili. Ma lasciamo da parte le preferenze personali e il dibattito: doppiaggio sì, doppiaggio no. Un tema caldo che accende delle dispute interminabili che alla fine si concludono sempre allo stesso modo: ognuno è libero di vedersele come vuole.

Oggi non ci concentreremo né sulla qualità del doppiaggio né sulla recitazione degli attori. Parleremo invece dell’inadattabilità culturale e creativa di quelle serie tv che, più di altre, sono troppo ancorate al loro contesto di riferimento linguistico. La traduzione di ogni loro battuta, infatti, fa assumere ai dialoghi tutt’altro significato, azzerando, per esempio, l’umorismo che nasce dai giochi di parole.

Peaky Blinders e altre 6 serie tv che tradotte in italiano raccontano un’altra storia.

Peaky Blinders (2013 – in corso)

Peaky Blinders

Siamo a Birmingham, dopo la prima guerra mondiale. I costumi e le ambientazioni svolgono gran parte del lavoro, aiutando lo spettatore a calarsi nell’atmosfera fuligginosa della narrazione. Peaky Blinders, come abbiamo detto più volte, ha un ottimo doppiaggio italiano. Ma l’accento dei personaggi vale, forse, più del set e dei costumi stessi, entrambi ricostruiti con una fedeltà storica parsimoniosa. L’essenza di Peaky Blinders, in fondo, è contenuta nel linguaggio stesso di Thomas Shelby (Cillian Murphy) e della popolazione di Small Heath. Ma c’è di più. Come sappiamo, sperimentandolo quotidianamente in Italia, i diversi dialetti, o semplicemente la cadenza o l’inflessione dialettale, rappresentano una componente culturale inscindibile, impossibile da adattare.

Basti pensare a come sarebbero Gomorra o Strappare Lungo i Bordi se i personaggi parlassero in un italiano privo di inflessioni dialettali. Non serve un particolare sforzo d’immaginazione: sarebbero un’altra cosa. Nel drama storico di Steven Knight, infatti, intervengono delle sfumature linguistiche funzionali alla narrazione stessa. Oltre all’accento di Birmingham, infatti, troviamo una mescolanza di accenti russi, gitani, irlandesi e cockney. Quest’ultimo è un termine che si riferisce alla classe proletaria di Londra, in particolare della zona est. Senza sapere molto del personaggio, già solo ascoltando il modo in cui si esprime, capiamo sia la sua provenienza geografica, sia la sua estrazione sociale. I dialoghi originali di Peaky Blinders sono a tutti gli effetti un elemento narrativo carico di implicazioni culturali che, a partire dalla sonorità delle parole, sono inadattabili. Per non perdere valore, forse, il doppiaggio dovrebbe essere affiancato da note a margine con le spiegazioni. Come si fa con la poesia.

The Office US (2005 – 2013)

The Office

Nell’incipit non abbiamo menzionato la parola cringe a caso. La sensazione di stridore misto a imbarazzo, infatti, pervade ogni scena di The Office US; in particolar modo quando in giro a sentenziare fesserie c’è Mr. Michael Scott. That’s What She Said, ad esempio, è una frase traducibile in italiano. Addirittura è tra le prime strutture sintattiche inglesi che si studiano a scuola: questo è quello che lei ha detto. Tradotto, per ovvie e comprensibili ragioni, in “disse la ragazza”. Eppure, quando questa frase viene pronunciata dal Michael doppiato da Vittorio Guerrieri (che ha dato spesso la voce a Ben Stiller), la frase non conserva lo stesso ritmo e la stessa sonorità. La sensazione di sfogo liberatorio, cadenzato e irruento, che gli conferisce la lingua inglese evapora. La conseguenza è che il tempo comico, che nell’originale ci fa crepare dal ridere, in italiano viene annullato. Come succederebbe, al contrario, con “bucio de c**o” di Nando Martellone.

Le situazioni stressanti e insopportabili, le sottotrame ben cucite tra loro e le vicissitudini dei personaggi sono senz’altro il motore comico della serie. Ma l’origine dell’ironia del remake statunitense di Greg Daniels arriva soprattutto dalle sfumature e dalle sonorità linguistiche, difficili da mantenere. A ogni puntata, il nostro livello di sopportazione aumenta, ma è innegabile che a trasportarci lungo un susseguirsi di vicende, sulla carta, noiose sia il ritmo quasi musicale dei giochi di parole. Se The Office in italiano è imbarazzante, in lingua originale è cringe. E già il nostro volto si colora di tutte le sfumature che vediamo su quello di Jim e di Pam e, insieme a loro, percepiamo sulla nostra pelle il vento gelido delle freddure di Michael. Se in italiano The Office è una commedia con situazioni divertenti, in lingua originale è un qualcosa d’indecifrabile e semplicemente geniale.

IT Crowd (2006 – 2013)

IT Crowd

La sit-com di Graham Linehan è una tra le tante serie tv britanniche inadattabili in italiano. L’umorismo inglese, di cui i Monty Python sono i rappresentanti più illustri, è intraducibile e impossibile da adattare in un’altra lingua. Ma soprattutto perde di significato se estirpato dal suo contesto di riferimento. The IT Crowd, come molte delle comedy britanniche, è sorretto dalle interazioni dei protagonisti, interpretati da Chris O’Dowd, Richard Ayoade e Katherine Parkinson, con gli altri personaggi di contorno, altrettanto esagerati e grotteschi. The IT Crowd, come The Office, è un’altra serie dove il cringe spadroneggia sovrano. Un elemento che viene veicolato soprattutto dalla sonorità di certe espressioni.

Le voci originali, anche se avevamo promesso di non parlarne, sono troppo caratterizzanti e peculiari. Sebbene il lavoro di doppiaggio sia eccellente, restano degli aspetti fonetici impossibili da mantenere. Come la tendenza a marcare le parole di Denholm Reynholm o l’abilità di Jen di far passare la sua ignoranza per sofisticatezza. La comicità della sit-com, poi, si basa esclusivamente sui giochi di parole; come non pensare alla gag delle damigelle d’onore o del pedofilo, nate proprio dall’ambiguità e dall’assonanza linguistica con altre parole. Un altro tratto che viene sacrificato – meno diffuso di Peaky Blinders, ma altrettanto importante – è la sfumatura regionale che assume un valore narrativo a sé stante. Parliamo ovviamente della provenienza di Roy, Irlanda, che è una caratteristica strutturale del suo personaggio, che emerge con prepotenza nell’episodio The Work Outing.

South Park (1997 – presente)

South Park

Se esistesse una regina indiscussa dei giochi di parole, sarebbe di sicuro la sit-com animata di Trey Parker e Matt Stone (che tra l’altro doppiano la maggioranza dei personaggi). La trama di ogni episodio, infatti, si sviluppa sulla costruzione e decostruzione semantica di concetti, parole, espressioni e luoghi comuni. L’umorismo, quasi mai immediato, si costruisce progressivamente sullo scambio dialogico che solo alla fine dell’episodio culmina nel messaggio satirico. Le contraddizioni sociali vengono smascherate a partire dall’analisi dei costrutti sociali e linguistici. I dialoghi sfidano il senso del ridicolo e rincorrono, avvalendosi di qualunque mezzo espressivo, la denuncia corrosiva di un dato accadimento. Le figure retoriche permeano ogni battuta. Dall’antifrasi alla litote, ogni mezzo è lecito per raggiungere un obiettivo satirico. Non solo, ma spesso si gioca tra il contrasto dell’immagine e il significato della parola fuori dal suo contesto.

Gli esempi da citare sono infiniti, ma il meccanismo è sempre lo stesso. Ogni episodio di South Park è costruito per lasciare che sia lo spettatore ad arrivare a una conclusione. Loro non dicono che qualcuno è idiota, loro lo mostrano tramite escamotage sempre geniali. Dai più sofisticati, come le allusioni all’impossibilità di mostrare il profeta Mohamed, a quelle più immediate, altrettanto efficaci e inadattabili. Come ad esempio il ritornello dell’episodio 07×12, All About Mormons, da cui svilupperanno un musical vero e proprio: The Book of Mormon. Il tema musicale cantato imita i suoni gravi del pianoforte “dum–dum–dum–dum–dum”, che però in inglese alludono anche alla parola “idiota” o “scemo”. Insomma, un processo creativo di scrittura troppo articolato per essere semplicemente tradotto. Un’operazione analoga, in Italia, alla comicità di Lillo & Greg e di Valerio Lundini oppure a quella di Maccio Capatonda, che ha doppiato anche un episodio dello show, il 16×01.

Fleabag (2016- 2019)

Fleabag

Derek, Monty Python’s Flying Circus, Misfits, ma anche i drama, come il già citato Peaky Blinders. Le serie tv britanniche sono difficili da adattare in italiano. Forse perché lo humor è una componente intrinseca dell’inglese britannico. Scommettiamo che Fleabag non sarebbe la stessa neanche se gli attori parlassero l’inglese americano. L’irriverenza della vicenda è contenuta nel linguaggio stesso. Il ritmo asciutto, secco e scarno di ogni scambio di battute ha bisogno della lingua in cui sono state scritte per funzionare. Il dark humor – di cui in Italia non siamo certo sprovvisti – non può essere semplicemente tradotto. Per farlo bisognerebbe compiere un’operazione di riscrittura tout court. Un esempio estremo? Il personaggio scritto e diretto da Phoebe Waller-Bridge dovrebbe parlare la lingua di un contesto capace di restituire le stesse suggestioni di quello originale. Magari la Roma dei Parioli o la Milano del “corsivo”? Un gioco di fantasia, per fortunata, che non vedremo mai, utile per sottolineare l’importanza della componente culturale nella lingua della dramedy. Senza la quale sarebbe una commediola piccante con una protagonista un po’ sboccata.

Se anche voi avete avuto la sfortuna di imbattervi per la prima volta nella versione doppiata (che si avvale di professionisti capaci e preparati, come la protagonista doppiata da Angela Brusa, voce italiana di D’Arcy Carden in The Good Place o Shantel Van Santen in The Boys) probabilmente avete trovato la visione sgradevole e volgare. Perché Fleabag – soprattutto nella prima stagione – è sgradevole e volgare. Ed è qui che entra in gioco lo humor inglese che controbilancia i comportamenti eccessivi della protagonista – che repelle come un sacco di pulci – con il sarcasmo e un ritmo sofisticato. Una sonorità melodica che fa sembrare anche le battute più scurrili, dei bocconcini di zucchero filato. La velocità e la frenesia del parlato inglese, che si intona al tema musicale che precede ogni episodio, si annulla in italiano. Una lingua che annacqua l’essenza di un prodotto complicato, dove ogni elemento ha il suo ruolo specifico (a partire dalla lingua stessa). Senza contare che un “darlyng” pronunciato da Olivia Colman vale più di mille parole.

Brooklyn Nine-Nine (2013 – 2021)

Brooklyn Nine-Nine

Brooklyn Nine-Nine è un’altra di quelle sit-com dove il linguaggio stesso rappresenta un elemento narrativo. Una serie tv molto apprezzata, ma che purtroppo non è ancora esplosa in Italia come dovrebbe. Il suo punto di forza consiste proprio nella caratterizzazione esasperata dei personaggi e delle gag. Forse proprio quello che allontana sia lo spettatore che non ama questo tipo di umorismo, sia quello che si approccia alla storia in una lingua diversa dall’inglese. In italiano, infatti, la serie creata da Dan Goor e Michael Schur (non a caso, uno degli scrittori e produttori di The Office US, nonché cugino di Dwight), per dirla in maniera sintetica, perde la sua verve comica. Per meglio dire, diventa un’altra serie tv. È divertente, certo. È sagace, ma è proprio nei momenti in cui nell’originale si tocca il culmine dell’ironia che in italiano potremmo restare spiazzati. Come se mancasse qualcosa. Ebbene quel qualcosa è proprio la sfumatura linguistica.

La costruzione del suo umorismo si fonda su un equilibrio già di per sé precario. Se Fleabag punta sul dark humor, Brooklyn Nine-Nine rilancia con la semplicità. La comedy sa alternare situazioni di eccessiva demenzialità a momenti commoventi, e ci conquista quando accettiamo questo compromesso. Un umorismo genuino, ma non per questo meno arguto. Un aspetto che in italiano rischia di essere scambiato per banalità. Le gag e gli sketch si costruiscono, infatti, sulle ripetizioni (volute), sui continui rimandi a situazioni precedenti che potrebbero sembrare delle forzature caricaturali e stereotipate. Proprio come accade in The Office US, dove l’ilarità nasce dalla ripetizione stessa di battute ormai iconiche. E magari con una sonorità meno incisiva dell’originale, come “Cool, cool, cool, cool, cool. No doubt, no doubt, no doubt.” Fino ad arrivare al punto in cui i personaggi non hanno nemmeno più bisogno di pronunciarle. Sono già lì, nella nostra testa.

The Marvelous Mrs. Maisel

The Marvelous Mrs. Maisel e Peaky Blinders

The Marvelous Mrs. Maisel ha portato sul piccolo schermo, come poche altre serie tv hanno saputo fare, la stand-up comedy. Nella bocca di uno stand-up comedian (bravo/a!) ogni argomento, dal più noioso al più entusiasmante, diventa esilarante. Il miracolo della stand-up comedy è tutto nella costruzione delle battute e dei tempi comici che, come una partitura musicale, sono studiati. Ecco perché una serie tv che porta nella finzione la potenza della comicità da palcoscenico è inadattabile se non si effettua un lavoro creativo di riscrittura. La stand-up comedy doppiata è una contraddizione. Come si fa a doppiare qualcosa che è strettamente dipendente dalla lingua in cui è stata concepita? Senza contare i respiri, le pause e i riferimenti culturali e politici, i quali perdono senso nella trasposizione italiana. Sebbene nella dramedy di Amy Sherman-Palladino non vi siano solo momenti in cui Miriam “Midge” Maisel – o un suo collega, ad esempio Lenny Bruce – si esibisce, ogni dialogo è modulato su un ritmo comico identitario che non abbandona mai lo schermo. Senza contare le differenze della cultura ebraica che Midge non perde occasione di sottolineare. In italiano la storia è altrettanto piacevole, ma segue un altro ritmo. Un ritmo che la rende una comedy divertente, ma senza brio.

Sebbene ogni dialogo di The Marvelous Mrs. Maisel o di Peaky Blinders possa essere tradotto in italiano, durante l’operazione evapora l’essenza. Resta il senso letterale, certo, ma si perde tutto il resto. Come il ritmo, le suggestioni, le sfumature implicite e i sottotesti. Qualcosa di immateriale e d’inadattabile, che può vivere solo all’interno del proprio contesto di appartenenza.

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