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Il significato del finale di Parthenope

Un'immagine tratta dal film Parthenope
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Il significato di Parthenope, ultima, dolorosa, fatica (anzi, memoria) di Paolo Sorrentino è tutto nella scelta di una donna che lascia dietro di sé il dolore e la vita per amore e per necessità. Parthenope è un film in cui la nostalgia, come ogni vera, etimologica nostalgia (“algos“, dolore), fa male. Un dolore che affonda nel tempo, che si fa largo, inaspettato e sconvolgente, nel momento di maggiore spensieratezza: quello dell’adolescenza, il periodo degli amori e delle emozioni, delle possibilità e potenzialità, della vita davanti e degli amici accanto. Parthenope, ragazza sbocciata in tutta la sua superba grazia, sperimenta questo momento: ama, gioca, seduce, si nasconde, si fa inseguire, legge, studia, si emoziona.

Ha la risposta pronta, ha il sorriso sornione di chi pare aver capito tutto della vita. Parthenope è un tutt’uno col mare, con le persone, con la sua città. Bella e sfuggente come l’enigmatico sorriso arcaico di una statua greca. Non puoi leggerle dentro per quanto tu possa provare a chiederle: “A cosa stai pensando?“. Come una Gioconda Parthenope sfugge alle risposte, alimentando il fascino meraviglioso della gioventù.

Foto tratta dal film Parthenope
Credits: The Apartment

Ma come una Persefone antica, bellissima e proprio per questo già in partenza condannata, che nell’atto più dolce e femmineo, nel raccogliere un fiore, viene rapita e fatta sposa dal dio della morte, così Parthenope scopre la morte. Diventa sposa della morte. Il fiore della gioventù è reciso. L’amore non troverà più spazio. Solo fugaci apparizioni, sempre relegate a una sfera sessuale che non indica più spensieratezza ma consapevolezza. La morte del fratello Raimondo chiude per sempre una stagione della vita dopo la quale la fanciulla diventa donna, come riconosce lei stessa.

Ora in Parthenope c’è la pesante coscienza del dolore, della perdita, della morte.

Quel mondo etereo, luminoso, fatto di mare dolce e sole abbacinante perde colore. O meglio, ancor più dolorosamente, rimane se stesso, duramente indifferente al cambiamento di Parthenope. Non c’è più la fanciulla con i suoi giochi d’amore e di vita ma la donna con la sessualità e lo studio. Parthenope sbiadisce, non può fare l’attrice perché, come riconosce la diva Greta Cool, sul suo volto si è dipinta per sempre la pesantezza del dolore, il velo della nostalgia, del dolore di un ritorno (“nostos“) che non può esserci.

Uscita da quello stato di natura, da quella perfetta simbiosi con il mondo, con Napoli, con la vita fatta di ballo, bellezza, abbracci e spensieratezza, ora c’è la realtà. Una realtà di brutture accanto al bello, di illusioni, di dive decadenti, stanche e frustrate, di sesso e di ricerca disperata di senso. Lo studio per Parthenope, nella sua kalokagathia (perfetta unione di bellezza, levatura spirituale e intellettiva), diventa un modo per dare senso al dolore, alla morte che come una voragine si è aperta sotto di sé e l’ha resa sua sposa.

Foto tratta dal film Parthenope
Credits: The Apartment

Il significato del dolore, però, prova a farglielo capire subito il professor Marotta, non c’è. Non c’è tesi che possa spiegare la perdita, il suicidio, la mancanza. O meglio, che possa rendere più accettabile tutto questo. E allora per Parthenope lo studio diventa qualcosa di altro. Diventa fuga e nuova affermazione di sé. Negazione di quell’esteriorità che aveva perso e da cui era stata tradita, come lei aveva con essa ingannato gli altri. Parthenope ha un’altra più profonda bellezza, quella che solo un antropologo come Marotta può vedere. Parthenope è intelligente, capace, bella moralmente e intellettivamente.

Non è un caso se ne accorga proprio Marotta (un impeccabile, come sempre, Silvio Orlando).

Non solo perché è compito dell’antropologo “vedere” ma anche perché lui più di tutti può capire la bellezza di un figlio bello come il mare, fatto di acqua e sale. Anche Parthenope, ormai pronta al suo ruolo di antropologa, riesce a vedere questa stessa bellezza: è la dimostrazione finale che è pronta, che può iniziare la sua carriera. Ha scelto di vedere perché Parthenope ha sempre voluto vedere, fin dall’adolescenza. Ma allora vedeva con lo sguardo del bambino, con l’illusione di una bellezza senza orrore mentre, come declamava Rainer Maria Rilke, “Nulla è il bello, se non il principio del tremendo“.

Silvio Orlando
Credits: The Apartment

Ora Parthenope può capirlo, con la consapevolezza del tremendo. Ora che vede con occhi adulti. Parthenope sceglie di vedere una seconda volta, in modo più consapevole ma nel contempo distaccato, senza quella spensieratezza ormai persa. Sceglie di vedere come fa un antropologo, con necessaria separazione dalle cose. Il professore Marotta lo chiarisce: si può essere antropologi solo quando si perde la speranza di “Ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro“. Parthenope ha rinunciato da tempo a quella fanciullesca partecipazione alla vita. È il suo modo di proteggersi da un dolore troppo forte per continuare a lasciarlo esprimere. Per lei il distacco è il solo mezzo per andare avanti.

Essere antropologa diventa così per Parthenope il modo per rinunciare ad alimentare l’emozione e quindi il dolore ma senza rinunciare del tutto alla vita.

Quella vita la osserva, la studia, prova a capirla ma rinuncia a viverla, a ridere, amare, emozionarsi. La scelta della donna è una scelta necessaria tanto per il suo mestiere quanto per quello che ha vissuto. Dice addio al suo primo, ingenuo, fragile ma puro amore, Sandrino, e nel contempo con disincanto sancisce la rinuncia all’amore tout court. “Non mi ami più?“, fa a Sandrino con sarcastica provocazione, prima di predirgli un futuro di quotidiana monotonia che nulla può avere a che spartire con la travolgente emozione di un’adolescenza per sempre sparita sotto il dolore dell’età adulta.

Ma Parthenope dice addio anche all’acqua e al sale, alla sua Napoli, a quei ricordi che non l’abbandonano e che ora sanno solo di nostalgia, dolore del ritorno al passato. Dice addio a Tutto il resto. Va a Trento, lontano dall’acqua, lontano dai ricordi, lontano dall’amore. Là dove può guardare tutto, consacrandosi totalmente al suo lavoro. Vede, osserva, capisce e tiene ogni cosa lontana da sé con l’imparzialità che è richiesta, insperatamente e forse erroneamente, allo studioso.

Foto tratta dal film Parthenope
Credits: The Apartment

Ma quando il suo ruolo si esaurisce, quando, con la pensione, il compito di antropologo si chiude per sempre, per Parthenope è il tempo di nuove scelte. Decide di tornare a Napoli. Decide cioè di tornare a soffrire, nella nostalgia, nel dolore del ritorno al suo passato. Là, di fronte alla meno imparziale delle convinzioni, a quella di un gruppo di tifosi mossi dalla passione e dalla gioia pura che tanto ricorda quella dell’infanzia, Parthenope ride. Smette cioè gli abiti distaccati di antropologa. Ride di nuovo “per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro“. Cioè partecipa di quella semplicità fanciullesca e un po’ ingenua di chi ride per una scena buffa o gioisce per una storica vittoria calcistica.

Parthenope torna nella sua Napoli e torna a emozionarsi.

Lo fa con tutti i rischi che ne conseguiranno, con quella inevitabile nuova apertura al dolore che per tanti anni ha provato a tenere lontano da sé e che ora, forse, è finalmente pronta ad affrontare con un pesante sorriso. Con la nostalgia di chi torna a soffrire nel nucleo dei suoi affetti. Lì dove un tempo tutto era puro e spensierato e ora è solo teatro del tempo del perduto, di ciò che è stato e che non tornerà mai più. Ma che almeno può, seppur dolorosamente, essere rievocato e così in parte riportato in vita.

Persefone, nel mito greco, pur sposa del dio della morte, per sei mesi all’anno verrà autorizzata a tornare a vivere. Parthenope, pur irrimediabilmente corrotta dalla morte, torna a sentire, a emozionarsi (come ci emozioniamo fanciullescamente per una squadra di calcio) e quindi torna a vivere. Anche se, spiega Sorrentino, lo spiega a se stesso, lo spiega a tutti noi, in età adulta si può tornare a vivere solo nel pesante dolore del ritorno al passato. Nell’enigmatico sorriso arcaico di chi conosce troppo bene la vita e il suo non senso.

A Federico,
che ha portato via con sé la spensieratezza della nostra adolescenza rendendoci adulti troppo presto

A te, nel dolore del ricordo, non smetteremo mai di tornare