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In principio vennero I Simpson. Poi ci fu South Park. Qualche anno dopo I Griffin. Infine Paradise Police, Paradise PD in lingua originale. In mezzo, è naturale, ci sono altre serie di animazione dedicate a un pubblico per lo più adulto. In linea generale, però, queste quattro hanno alzato, ciascuna a modo suo, il livello di irriverenza e del politicamente scorretto.
Paradise Police rappresenta l’ultima stazione finora conosciuta di un lungo viaggio iniziato con il lavoro di Matt Groening. Un viaggio che non sembra avere una meta finale precisa e che ha posto lo spettatore di fronte al continuo sdoganamento di argomenti forti e spesso tabù obbligandolo ad andare oltre il dualistico giudizio basato sul mipiace-nonmipiace. Perché Paradise Police, superato il primo impatto, va a scavare nell’animo umano in maniera profonda obbligandoci a due domande consequenziali: fin dove si spingeranno gli autori; e quanto saremo capaci di sopportare noi del pubblico?

Come in ciascuna cittadina americana che si rispetti anche Paradise, il cui nome richiama luoghi celestiali ma che in realtà sembra più l’inferno in terra, ha il suo corpo di polizia: il Paradise Police Department. A comandare il dipartimento c’è Randall Crawford, una volta eccellente poliziotto la cui carriera come il matrimonio sono stati rovinati da un indimenticabile, doloroso quanto invalidante incidente domestico: durante un amplesso con la moglie il figlio Kevin, bambino di otto anni, gli spara a entrambi i testicoli.

Come agenti di polizia il Paradise PD schiera un campionario di poliziotti che, nella realtà, giacerebbero dietro le sbarre di un penitenziario di massima sicurezza con condanne dai trent’anni in su.
C’è Gina, efficiente sì ma di una violenza inaudita, affetta da qualche disturbo psichiatrico grave e sessualmente molestatrice del collega Dusty, un obeso insicuro la cui parafilia più appagante è quella di farsi leccare nudo dai suoi gatti. C’è Fitz, con un disturbo post traumatico da stress che riesce tenere sotto controllo grazie al suonare l’ottavino, strumento che suscita una valanga di battutacce e doppi sensi volgari e a sfondo sessuale. C’è Stanley, il vecchio del gruppo la cui saggezza è andata perduta lasciando spazio a perversioni sessuali al limite della decenza umana. C’è Bullet, il cane antidroga antropomorfo dedito all’assunzione di ogni tipo di sostanza stupefacente che spesso viene rinvenuto privo di sensi nella stanza della raccolta prove, col tartufo canino sporco di polvere bianca.

E poi c’è Kevin, il cui sogno nella vita è diventare poliziotto un po’ per seguire le orme paterne, un po’ per cercare di rimediare al tragico errore commesso da bambino che l’ha visto sprofondare nelle gerarchie affettive del padre. Non proprio una cima, dotato di una buona dose di fortuna che lo porta a scoprire le tracce e gli indizi dei casi che segue, anche Kevin ha le sue peculiarità, per usare un eufemismo. Del resto, è la degna rappresentazione di una città, Paradise, cronicamente al verde, motivo per cui la polizia può assumere solo le forze più economiche, le più incapaci e nemmeno diplomate all’accademia.

Quando Paradise Police esce su Netflix, nel 2018, deve vedersela con una corazzata del genere di Disincanto, la nuova serie animata creata da Matt Groening. Inutile fare paragoni: tra le due non c’è alcun punto in comune. Né nell’animazione, né nei personaggi, né tanto meno nella sceneggiatura. Del resto sono gli stessi creatori di Paradise Police, Roger Black e Waco O’Guin, ad affermarlo in una intervista. I due, già ideatori di un’altra serie animata, Brickleberry, che, quanto a irriverenza abbonda pure lei, si sono detti onorati di condividere l’uscita di Paradise Police con Disicanto ritenendo che tra i due prodotti l’abisso sia tale da non costituire preoccupazione per il successo della loro creazione.

Roger Black e Waco O’Guin provengo entrambi da cittadine rurali degli Stati Uniti del Sud. O’Guin poi ha due cognati in polizia. L’idea di creare Paradise Police quindi è la giusta miscela dei due fatti. Oltre a questo i due autori hanno voluto riprendere il filo interrotto con la loro precedente creazione, Brickleberry, andata in onda dal 2012 al 2015 e cancellata senza troppi ripensamenti dall’emittente via cavo americana Comedy Central. Dalla precedente serie i due hanno infatti trasposto tutti i personaggi ovviamente riadattandoli alla nuova ambientazione. Un’ambientazione che, nelle televisioni americane, ha un grandissimo seguito: la serie poliziesca ambientata nel distretto di polizia. Paradise Police è, infatti, una serie d’animazione antologica delle più classiche, che però porta avanti una storia a lungo respiro, episodio dopo episodio, gag dopo gag.

Il coté poliziesco è sicuramente interessante ma l’impressione generale è che sia un contorno sontuoso sistemato lì, a fare da sfondo. Sono le gag il piatto forte della seria. Gag di un umorismo che spazia tra il black humor e la satira toccando praticamente qualsiasi argomento immaginabile, senza risparmiarne nessuno.
Black e O’Guin in certi casi sono riusciti a sorpassare ogni limite, per altro da loro stessi fissati con Brickleberry, arrivando a trattare temi considerati inavvicinabili e scottanti che, è ovvio, hanno scatenato le polemiche e diviso in due gli spettatori: da una parte i favorevoli, quelli che si deve scherzare su tutto; dall’altra i critici, quelli che certi argomenti non si possono toccare.
Pur essendo vietata ai minori di quattordici anni Paradise Police è violenta, piena di sangue, sessualmente esplicita e con una spiccata propensione a mostrare la dipendenza da sostanze stupefacenti o medicinali. Ma ha anche dei difetti, come si dice oggi.

Razzismo, misoginia, body e fat shaming, discriminazione verso i generi, le religioni, la sessualità e un odio viscerale verso gli anziani, se vi dovesse venire in mente qualcosa di terribilmente scorretto sentitevi liberi di aggiungerlo. In Paradise Police nessuno è risparmiato, tutti vengono trattati allo stesso modo: male, possibilmente in maniera volgare. Una volgarità che risulta eccessiva, cruda, a tratti disturbante, che in certi frangenti potrebbe persino apparire patologica e, naturalmente, divisiva.

La serie di Black e O’Guin sembra decisa a fare dell’esagerazione il suo marchio di fabbrica. I due autori, infatti, nelle interviste rilasciate sembrano non preoccuparsi di quelli che sono i giudizi del pubblico né tanto meno quelli della critica ritenendo di dover rendere conto soltanto a Netflix la quale, a detta loro, è felice del progetto che ne sta venendo fuori (finora tre stagioni, trenta episodi). Nessuna censura da parte della piattaforma on demand. Del resto per acchiappare pubblico tutto lecito.

Paradise Police, a modo suo, è una esperienza che si può anche non fare ma che una volta intrapresa ha il suo perché. Le tematiche affrontate, al netto della volgarità e dell’eccesso talvolta eccessivo, rappresentano una critica feroce alla società americana, alla sua ipocrisia e ai suoi luoghi comuni. Del resto è questo il compito della satira: seminare qua e là spunti di riflessione nella speranza di raccoglierne i frutti più avanti.

Non va dimenticato, poi, che la seria è un prodotto made in USA con dettagli che spesso non siamo in grado di riconoscere e quindi comprendere (e in questo a volte non siamo aiutati dal doppiaggio). Così, per esempio, l’incesto tra fratelli e sorelle non dovrebbe apparire oltremodo scabroso se contestualizzato al fatto che chi lo pratica è la caricatura del redneck che abita le campagne dell’Arkansas o della Georgia, famosi per distillare whiskey casalingo e accoppiarsi con i parenti prossimi.

Due piani di lettura sono perciò validi per Paradise Police. Il primo, il più semplice e immediato e che potrebbe portare lo spettatore a ritenere la serie non degna di essere guardata fino in fondo, è un piano di lettura che implica la risata facile, fine a se stessa, che finisce lì. Un piano chiaramente molto soggettivo che dipende da chi guarda e che potrebbe rispondere alla domanda su quale sia il punto limite di sopportazione dello spettatore.
L’altro, che scava oltre l’apparenza e fa dell’esagerazione la chiave di volta per aprire e conoscere un mondo fatto di eccessi usati come una sorta di specchietto per le allodole. Un secondo piano che dipende dagli autori e che potrebbe rispondere alla domanda fin dove essi siano capaci di spingersi.
Entrambi i casi, come dicono gli autori, sono validi per godersi uno spettacolo che vuole omaggiare, a modo suo, il lavoro di Matt Groening e quello di Seth MacFarlane.

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