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Una serie di sfortunati eventi rivoluziona il concetto di spoiler

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla prima stagione di Una serie di sfortunati eventi e non intendete trascorrere una giornata infausta e funesta.

Una serie di sfortunati eventi
Il Conte Olaf

Una serie di sfortunati eventi ci sorprende continuamente, anche se sappiamo quasi tutto fin dall’inizio. In un’epoca nella quale impera lo spoiler alert (soprattutto quando si parla di serie tv), questa è una rivoluzione pazzesca. Sia chiaro: stavolta Netflix non ha inventato nulla, visto che non ha fatto altro che riprendere gli schemi narrativi utilizzati da Daniel Handler, ma ha il grandissimo merito di aver convertito il codice all’interno di una serie tv, e questo non era affatto scontato. Perché? Perché, come ha affermato Vincenzo Galdieri in un articolo di qualche tempo fa dedicato a Dragon Ball, “viviamo tempi difficili. Tempi in cui se fai uno spoiler rischi grosso, grossissimo. Rotture di amicizie, rotture di fidanzamenti decennali, rotture di qualsiasi cosa. In generale, rotture di palle. Ormai se spoileri anche la minima parte della puntata più inutile di una qualsiasi serie devi farti il segno della croce, perché sai che non la passerai liscia”.  Ma Una serie di sfortunati eventi se ne frega. Il motivo è semplice: la trama è semplice al punto da non essere l’elemento più importante. Cosa succederà ci interessa fino ad un certo punto, è il come verrà raccontato a fare davvero la differenza, trasformando una fiaba per bambini privata del lieto fine in un’opera universale leggendaria, capace di insegnare qualcosa ad ognuno di noi.

Una serie di sfortunati eventi
I disgraziati fratelli Baudelaire

La guarderemo fino in fondo, anche se quegli stronzi di Netflix ci avevano avvisato e detto tantissimo fin dalla sigla. Ci avevano invitato a non guardarla grazie alla voce inconfondibile di Neil Patrick Harris, sfruttando il più banale dei meccanismi di psicologia inversa. Netflix scongiura da subito ogni fraintendimento possibile: Una serie di sfortunati eventi inizia male e finisce peggio. Non c’è speranza, sappiamo già che sconfiggere definitivamente il conte Olaf è un’utopia e che i poveri fratelli Baudelaire dovranno vivere un’odissea senza fine. La sigla muta all’inizio di ogni doppio episodio (corrispondenti ad uno dei tredici racconti di Handler), offrendoci persino una piccola sinossi di quel che accadrà nelle due ore successive. A questo si aggiunge la presenza costante di Lemony Snicket (pseudonimo dell’autore dei libri), un narratore che sfonda la quarta parete ed interagisce con noi attraverso degli spiegoni dai contorni barocchi ed appunti sui temi dell’episodio. Le postille didattiche, destinate principalmente ad un pubblico più giovane, richiamano fortemente la funzione che avevano gli autori di buona parte delle fiabe con le quali siamo cresciuti. Handler, tuttavia, modernizza il ruolo facendo del proprio alter ego un personaggio attivo.

C’è solo un unico, grande colpo di scena all’interno della prima stagione di Una serie di sfortunati eventi, svelato nel corso dell’ultimo doppio episodio: l’uomo e la donna che pensavamo fossero i genitori dei Baudelaire, la sola speranza alla quale pensavamo di poterci appigliare temporaneamente, non sono in realtà tali e purtroppo Cobie Smulders non sarà “la madre” manco stavolta. Netflix ci aveva avvisato, ma noi siamo cascati ugualmente nel tranello nonostante conoscessimo la sinistra realtà dei fatti: Violet, Klaus e Sunny, tre bambini maturi  catapultati in un mondo di adulti ingenui, sono soli in balia del destino. Il fucile di Cechov ha sparato l’ennesimo colpo e noi siamo finiti in un pantano, senza sapere che ruolo avranno realmente i due. L’incombenza continua degli spoiler ci ha trasformati per un attimo in un signor Poe qualunque, facendoci vedere la realtà in modo ingenuo e, di conseguenza, distorto. Al contrario, dovevamo essere dei bambini e dare fiducia a quel che c’era stato detto fin dall’inizio.

Una serie di sfortunati eventi
La maledetta tosse del signor Poe. E tanti saluti a Wes Anderson 

A questo punto una domanda nasce spontanea: perché dovremmo guardare una serie che trasforma lo spoiler in uno strumento narrativo? Perché c’è modo e modo per raccontare una storia. E Una serie di sfortunati eventi lo fa benissimo, con l’eleganza di una fotografia che vive di contrasti altisonanti ed una regia che unisce perfettamente le anime di Wes Anderson e Tim Burton. Perché il surrealismo è ancora una volta lo strumento ideale per raccontare la realtà, e tornare bambini è un’esigenza imprescindibile per vedere il mondo in quanto tale, senza filtri. Perché lo humour di una dramedy è estremamente efficace, e Neil Patrick Harris ci ha regalato un Conte Olaf che non ha fatto rimpiangere l’ottima interpretazione di Jim Carrey. Perché Sunny e il suo amore per il poker e Tito Puente è meravigliosa e, più di tutto, perché l’ansia da spoiler è una fobia tutta nostra che ci rinchiude in una stanza di serpi velenose, uno spauracchio che ogni tanto dovremmo mettere un po’ da parte.

Una storia da raccontare può essere stupenda a prescindere dalla semplicità della trama che sviluppa, e Una serie di sfortunati eventi ne è la massima espressione. Lo sapevamo fin da piccoli, nel momento in cui ci leggevano una fiaba della quale intuivamo fin da subito il lieto fine. Lo sapevamo nella fase dell’adolescenza, quando ci siamo emozionati nel vedere la prima trasformazione di Goku in Super Sayan, nonostante fosse esplicitata fin dalla sigla. Poi, però, abbiamo perso di vista la magia del racconto nella sua essenzialità, cercando il colpo di scena ad ogni costo. Anche se il contrappasso è un calo di concentrazione su tutte le sfumature che una storia scritta bene può offrire. Una serie di sfortunati eventi, invece, ci riporta al punto d’origine, mutando il concetto di spoiler. La guarderemo fino alla fine e, anche se sappiamo che finirà male, non ci regalerà mai una giornata infausta e funesta. Questa, in fondo, è la miglior sorpresa che Netflix potesse riservarci. E definirla una rivoluzione non è certo un’esagerazione.

Antonio Casu