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Malcolm e Marie: una partita a ping pong di rimorsi

È sbarcato da pochissimo su Netflix il nuovo film di Sam Levinson, Malcolm & Marie. Le redini dell’intera storia sono rette da Zendaya e John David Washington che insieme riescono a portare a termine un esperimento che non possiamo non definire più che riuscito. La trama racconta la storia di una coppia composta da un regista e un’ex attrice con un passato tossicodipendente da cui è tratto – liberamente – il film del compagno. Ambientato in una sola notte, il film parte dall’arrivo a casa dei due coniugi, un arrivo che darà inizio a una guerra fatta di conflitti e perdite.

Malcolm & Marie è il racconto di qualcosa che non sa come sopravvivere ma cerca di farlo. È una partita a ping pong in cui ogni battuta è un passo verso il burrone.

Malcolm & Marie

Girato interamente in bianco e nero, il film parla di Malcolm e Marie, una coppia affranta e distrutta dalla propria anima che si dimostrerà essere rancorosa e arrabbiata. Durante la notte i due si scambieranno parole forti, parolacce, insulti, umiliazioni gridando all’altro ogni fallimento rinfacciandogli ogni suo demone interiore cercando di affermare la propria forza. Un’ora e quaranta fatta di urla, sberle date con lo sguardo assente e perso, finti momenti di serenità. La loro discussione – nata perché Malcolm non ringrazia nel discorso finale del film Marie – è altalenante e riduce i due protagonisti nell’oblio di loro stessi. Le scene sono una vera e propria sequenza in cui cercano di pareggiare la partita: vedremo, infatti, che i loro monologhi si alterneranno cercando di creare quasi un ordine cronologico. Se parla lui, non parla lei. Se parla lei, non parla lui.

Non sanno come rispondere alle coltellate dell’altro. Così si prendono del tempo, stanno in silenzio per poi essere pronti a riattaccare ogni volta più fortemente della prima.

La cronologia di queste sequenze si fa sempre più dura, sempre più tragica per la coppia. Durante il film ci si chiede sempre come sarà il finale, come riusciranno a concludere la discussione. Chi cederà, perché lo farà. Non si riesce a immaginare un finale in cui i due riescono a stare insieme, a perdonarsi: quello che si dicono è troppo pesante da sopportare, come potrebbero?

” Se annienti con regolarità ogni persona che ti circonda finirai col vivere in una realtà fatta di finzione. Guardami, io sono l’ultima superstite. Sono l’ultima rimasta a guardarti e dirti “ora basta, puoi fare di meglio anche con il tuo lavoro” . Se questo fosse un film, ti aggrapperesti a me come a un’ancora di salvezza: è questo che siamo stati l’uno per l’altra.”

Marie a Malcolm

Questo discorso fatto da Marie ci fa entrare dentro la sfera di un amore che è stanco, maltrattato, impaurito. I due – devastati da loro stessi – si sono attaccati all’altro cercando di sopperire così a ogni loro sofferenza. Malcolm non è cosciente di quel suo lato rotto e distrutto proprio come quello della compagna, mentre lei invece è ben consapevole di tutti i demoni presenti in quella casa: albergano dentro di lei, dentro di lui e nella loro coppia. A capo di questo litigio c’è qualcosa che va oltre, qualcosa che loro che non possono aggiustare. Le loro frustrazioni si fanno sempre più cupe e non sembrano voler trovare un punto di arrivo. Non si concentrano solo sul loro rapporto, ma vanno oltre fino ad arrivare al mondo dell’arte.

Malcolm & Marie

Lui, regista che finalmente sta riuscendo ad affermarsi nel cinema, crede nell’interpretazione. Lei, ex attrice riluttante al riflettore dell’artificialità, crede nell’autenticità.

Due punti di vista completamente opposti che si scontrano per via di un grazie non ricevuto, di un complimento non fatto. Queste due idee così antagoniste riescono a tirare fuori la rabbia di Malcolm nei confronti della critica cinematografica che non aspetta altro che guardare un film per dare in pasto al lettore una bestia da macello da vivisezionare. Lui, proprio lui, che vede all’interno dell’arte la necessità di dare una prospettiva sulla realtà per interpretarla, urla contro chi fa la stessa cosa con i suoi prodotti e non importa se la critica sia negativa o positiva: ciò che lo disturba è il principio, il bisogno di etichettare estraendo fuori una realtà e un’intenzione che lui in realtà non voleva mettere. A volte i film sono solo film e le cose sono solo cose. Questa esigenza di appicciare a ogni singola particella un significato lo stressa a tal punto da non apprezzare la recensione positiva che leggerà durante un raro momento di pace con Marie.

Quella critica che dirà del suo film “un capolavoro” gli attaccherà degli obiettivi che Malcolm non si era proposto, e questo punto lo farà infuriare talmente tanto da dare vita a uno sfogo devastante e stanco che lo porterà ad accasciarsi per terra con il fiato corto e più nessuna parola da dire.

Ma lei, amante dell’autenticità, non riesce a empatizzare con quel corpo disteso e affranto che trova di fianco.

“Voi giocate a travestirvi” questa è la definizione di Marie a quello che il marito chiama interpretazione. Dove lui vede poesia e bisogno emotivo, lei vede falsità e costruzione di qualcosa che non esiste e in cui non si riconosce. Tutte le parole di Malcolm vengono sporcate dalla compagna che, in quel film ispirato al suo passato tossicodipendente, si sente stretta e venduta. Il regista di quella pellicola ha due colpe: essere il suo compagno e averle tolto la possibilità di parlare di quel passato. Ha dato a un altro volto la vita di Marie, un altro corpo alle siringhe che si infilzava.

Il film, in maniera velata, sembra darle ragione perché la mette al primo posto, la rende la protagonista indiscussa semplicemente non essendo più di ciò che è. Non c’è un significato da appiccicare alle parole che si gridano addosso perché sono chiare, tangibili e non vogliono significare nulla che loro non abbiano già detto. Le dà a tutti gli effetti quello che il marito le ha tolto, e dà allo spettatore la visione di un’autenticità che vive nell’altalena di momenti di pace e di guerra. Non ha una linearità o una coerenza: i discorsi affrontati sono tanti e inconcludenti tra loro. Non esiste un momento in cui fanno pace o risolvono il problema trovando un compromesso, tutto rimane com’è senza un finale.

Malcolm e Marie sono il prodotto dei loro stessi dolori. Cercano di salvarsi a vicenda ma scoprono, loro malgrado, che in realtà insieme sanno distruggersi. Questa consapevolezza non li porta a nulla: la mattina dopo saranno ancora insieme in quella casa teatro della loro guerra e nulla sembra destinato a cambiare perché non esiste un’intenzione in quell’ora e mezza, ma solo un racconto che non vuole insegnare nulla, un viaggio senza direzione.

Un film, questo, che suona come un pezzo indie del cinema francese anni ’60 che cerca di trovare autenticità nei silenzi.

I momenti di tregua riescono, infatti, a raccontare più di ogni parolaccia urlata controvento: è tutto nei loro occhi, e la rabbia è tangibile in ogni momento in cui si guardano con il disgusto di amarsi anche così: con la consapevolezza del demonio che possiede l’altro. Ancora una volta, e stavolta per l’ultima, Malcolm e Marie chiudono la discussione senza arrivare a una soluzione e vanno a dormire con il macigno di amarsi senza alcuna interpretazione. L’amore, così spesso idealizzato, in questo film è una partita a ping pong fatta di rimorsi, cose taciute. Il vincitore non esiste e la battaglia finisce così: palla al centro.