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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla settima puntata di Monster: The Ed Gein Story.
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Da Psycho a Il silenzio degli innocenti, fino a Non aprite quella porta, Ed Gein è stato la matrice di un intero genere di mostri. Conosciuto anche come il “Macellaio di Plainfield”, è una delle figure più disturbanti e al tempo stesso più influenti della storia criminale americana. Colpiscono in particolare i dettagli che riguardano le atrocità che circondavano la sua vita quotidiana, così abnormi da superare la cronaca e diventare parte di una narrazione più complessa al cinema e in televisione.
Nato nel 1906 a La Crosse, Wisconsin, Gein crebbe in una famiglia isolata e disfunzionale, dominata da una madre fanatica religiosa, Augusta, che predicava la dannazione eterna e l’immoralità del mondo. Il padre, un alcolizzato violento, morì presto, lasciando Ed e il fratello Henry sotto il totale controllo della madre. Dopo la morte di Augusta nel 1945, Ed si ritrovò solo nella fattoria di Plainfield, un luogo già di per sé desolato, immerso nel gelo rurale del Midwest. Fu allora che la sua mente, già fragile, cominciò a disgregarsi del tutto.
L’interno della casa di Gein, al momento dell’arresto nel 1957, appariva come una vera e propria casa degli orrori: mobili ricoperti di pelle umana, tazze fatte con crani, maschere ricavate da volti di donne, un corsetto cucito con la pelle femminile. Gein confessò di riesumare corpi dal cimitero locale per realizzare un costume che gli permettesse di “diventare sua madre”. Il suo desiderio non era solo necrofilo, ma identitario. Un tentativo di annullare la perdita, di fondersi con la figura materna. Ed Gein è diventato il simbolo di una frontiera americana corrotta, di una follia che germoglia nel cuore della provincia.
Il suo nome evoca il lato oscuro della solitudine e della repressione sessuale, il punto in cui il puritanesimo si contorce fino a generare mostri.
Ed Gein fu un riflesso deformato di un’epoca che iniziava a scoprire il male dentro le mura domestiche, un memento mori della normalità americana che si sgretola sotto il peso dei propri incubi. I personaggi che ha ispirato – Norman Bates, Leatherface e Buffalo Bill – non sono semplici derivazioni, ma trasfigurazioni psicanalitiche del suo orrore. Ognuno di loro prende un frammento dell’universo di Gein e lo amplifica in una direzione diversa.
Con Psycho, Alfred Hitchock esplorò la banalità del male l’aspetto più profondamente psicologico di Gein. Leatherface, protagonista di Non aprite quella porta di Tobe Hooper (1974), rappresenta invece la parte fisica e viscerale del serial killer. Non è la psicosi del singolo, ma della collettività corrotta dell’America rurale. Infine, Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti (1991) è la declinazione moderna e simbolica dell’ossessione di Gein per il corpo femminile. Come lui, Buffalo Bill uccide donne per costruire un “abito” di pelle femminile, un modo per rinascere come ciò che desidera essere.

Ogni stagione di Monster ha sempre avuto bene in mente un differente tipo di mostro, e il contesto entro cui questo opera.
Se prima con Dahmer, Monster ha esplorato la repressione sessuale e il razzismo, con i fratelli Menendez il focus si è certamente spostato verso il dramma familiare, il patinato mondo dell’alta borghesia e il potere. Ora, con la terza stagione (disponibile sul catalogo Netflix qui), Monster torna ancora più indietro nel tempo, addentrandosi in quelle sperdute province del Midwest dove fanatismo e ignoranza erano all’ordine del giorno. La domanda resta la stessa: mostri si nasce o si diventa? Un quesito degno dei dibattiti più agguerriti di fronte a un bicchiere di vino e che, forse, non troverà mai davvero una risposta univoca. Dipende sempre dai punti di vista.
D’altronde è proprio da questa scomoda domanda che prende tacitamente avvio ogni stagione di Monster, seppur con toni e stili molto diversi. Dahmer aveva cavalcato l’onda del true crime, la stagione dei Menendez quella dei legal drama. Stavolta, con Ed Gein, siamo dalle parti dell’horror slasher. Nella nostra recensione alla terza stagione, abbiamo cercato di addentrarci nella macabra psiche di questo mostro. A nostro rischio e pericolo. Dissezionandone ragioni, storia e impatto culturale, siamo giunti alla conclusione che anche in questo caso si tratta di una interpretazione e non della verità assoluta.
Una cosa, in ogni caso, è certa: all’interno delle narrazioni più complesse e di difficile lettura, l’orrore in questa declinazione è centrale oggi quanto lo era settant’anni fa. E ha un forte impatto sul grande pubblico.
Con questo presupposto si apre infatti il settimo episodio della terza stagione di Monster. 1958. Un’asta dove a esser venduti sono tutti gli oggetti personali, gli strumenti da lavoro (e di tortura) e gli averi della famiglia Gein. 50 cents per visitare la casa del ghoul di Plainfield: l’orrore è un avaro esibizionista.
“Folks sure love a murderer”.
Nel mentre, dopo il processo che l’ha dichiarato mentalmente incapace di intendere e di volere, Ed Gein è internato al Central State Hospital dove i guadagni dell’asta gli permettono di comprare tre radio e un completino di lingerie. Tramite la radio Gein riesce a contattare due delle donne che lo hanno maggiormente influenzato nel corso della vita, dopo sua madre: Ilse Koch e Christine Jorgensen. Ma nessuno dei dialoghi è reale. Sono conversazioni private con le sue ossessioni, attraverso le quali Ed si giustifica, cercando conforto e una ragione alle sue azioni efferate. E una ragione, per quanto contorta, di fatto esiste, anzi due, e corrispondono alla schizofrenia e alla ginefilia estrema di cui è affetto.
“They say I killed some people”

Durante gli ultimi dieci minuti del settimo episodio di Monster, infatti, l’orrore della mente viene a galla.
In un ultima seduta con lo psichiatra, Ed Gein crolla, in lacrime chiede disperatamente aiuto. Incapace di capire se sia un mostro o ancora un uomo, Gein tenta di cercare una logica a quegli atti indicibili di cui lui non sa capacitarsi. Charlie Hunnam dà una lezione senza eguali di recitazione, immergendosi totalmente nella psiche di un uomo che divenne mostro perché un altro è stato un mostro con lui. Spezzato nel profondo dalla figura della madre e lasciato a se stesso per tutta la vita, Ed Gein ha alimentato il mostro dentro di sé senza sapere come porvi un freno.
In un’intervista, lo stesso Charlie Hunnam ha detto: “Se avesse ricevuto la cura giusta prima, avrebbe fatto ciò che ha fatto? Ho pianto inconsolabilmente leggendo quella scena”. Comprensibile, al di là di tutto. Ed Gein è diventato il boogyman sotto il letto perché non ha mai davvero conosciuto un’alternativa. Non possiamo in alcun modo giustificare ciò che ha fatto, né accettarlo in alcun modo: è altrettanto importante, allo stesso tempo, comprenderne meglio le ragioni all’origine. Altrettanto, se non addirittura fondamentale.




