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Ci sono Serie Tv che non richiedono un coinvolgimento mentale estremo. Serie Tv abbastanza lineari nella loro costruzione, al netto dei colpi di scena che ne determinano lo sviluppo. La Casa de Papel, ovvero la serie tv che più sta spopolando negli ultimi mesi, autentica rivelazione di questa stagione seriale (pensate che andava in onda in Spagna su Antena 3 facendo meno del 10% di share, poi la acquista Netflix et voilà: boom mondiale) di colpi di scena ne ha parecchi. E ha un ritmo incessante che, unito a tutti gli altri pregi che la caratterizzano, ti porta ad esaltarti. Esaltarti senza senso.

A me è capitato di esaltarmi come un pazzo in determinati momenti e durante la crescita incalzante della storia, ed esaltandomi mi chiedevo: “Ma che c***o sto guardando esattamente?”

E a una parte di me, quella più insensatamente esaltata, quella più istintiva, nemmeno interessava più di tanto cosa stessi guardando esattamente. Non era questo il punto cruciale della storia, stavolta. Perchè La Casa de Papel nel suo incedere potente e roboante al ritmo di ‘Bella Ciao’, finisce quasi col trasformarsi in un’esperienza sensoriale. 

Non è una serie ricca di sottotesti che per essere leggibili necessitano di una particolare profondità d’analisi, La Casa de Papel. Una delle critiche che le sono state mosse, in questo periodo di magnificente popolarità, è che in fondo in tutto ‘sto casino non si è capito dove volesse andare a parare. Ma forse la forza de La Casa de Papel è proprio questa: riuscire a coinvolgere decine di milioni di spettatori, in maniera potentissima, senza dargli un motivo specifico sul quale ragionare. Gli spettatori, semplicemente, si sentono parte di una Grande Impresa, e gli possono dare la lettura che vogliono loro. Esaltandosi senza senso. O almeno, senza un senso definito, definibile e individuabile come oggettivo.

Il senso oggettivo dell’impresa dei protagonisti effettivamente non c’è. Non si tratta di persone particolarmente vessate dal sistema, che magari hanno lavorato per anni, decenni, senza vedersi riconosciuti i giusti meriti. L’empatia che provi nei loro confronti è dettata semplicemente dal significato spiccio, pure et simple, di Grande Impresa: non dallo scopo della stessa, non dalle motivazioni sottostanti. Perchè in fondo il Professore ha sofferto da piccolo ma è talmente geniale che un lavoro figo e remunerativo se lo poteva trovare senza problemi. In fondo Berlino, Tokyo e compagnia cantante non è che fossero ‘sti stinchi di santo maltrattati dal mondo per chissà quale ragione: sono dei rapinatori professionisti, che hanno vissuto da parassiti del sistema. Gente che il sistema l’ha fottuto spesso e volentieri, non gente che si è fatta fottere troppo a lungo e a un certo punto decide di fare una Rivoluzione. 

Non hanno nemmeno un obiettivo specifico, non hanno bene in testa cosa fare con centinaia di milioni nelle mani. Hanno preparato nel dettaglio il piano per portare a termine l’Impresa, ma non hanno idea di cosa fare dopo aver compiuto l’impresa stessa. Li senti discutere su cosa potrebbero fare dopo, tra chi vuole stare su una spiaggia tutta la vita, chi dice che così “semplicemente non avrà più bisogno di lavorare”, chi vuole andare in questo o in quell’altro Paese. Come se fosse l’Impresa stessa l’unica chiave di tutto, fare qualcosa di scenicamente irripetibile e mai visto. Come se fosse semplicemente questo ciò che li spinge, non il godersi i frutti della loro Impresa dopo. Come se fosse solo l’Impresa intesa come corpo a se’ stante, ad avere senso. Non tutto il resto.

Per uno di loro si dimostra effettivamente così come sembra: Berlino – già malato terminale – muore crivellato di colpi dalla polizia che fa irruzione nella Zecca di Stato durante l’ultima puntata. Si è detto e si è scritto tanto sull’atto di estrema resistenza del personaggio più discusso della serie: è stato altruismo? In piccolissima parte. La realtà è che Berlino cercava disperatamente la sua fine eroica e gloriosa, perchè era quello che più era rimasto inghiottito dal senso di realizzazione dell’Impresa, come unico e finale obiettivo della vita. Per uno con un carattere così, godersi un annetto i soldi in giro sarebbe stato finanche banale. Perchè l’Impresa era l’unica cosa che aveva senso.

Qual è, quindi, il senso de La Casa de Papel? Come detto, a un certo punto mi sono ritrovato a non capire esattamente cosa stessi guardando (pur esaltandomi come un pazzo) e ho pensato che volessero redistribuire tutti quei soldi alla popolazione, come atto di altruismo e ribellione contro un sistema che penalizza i cittadini. Probabilmente lo abbiamo pensato in molti. E sarebbe stato più sensato, ma forse anche più banale.

Quando guardi La Casa de Papel senti che loro, i rapinatori dal cuore d’oro, lo stanno in fondo facendo per qualche ideale superiore. Ma in fin dei conti, l’unico che lo fa per qualcosa di simile a un ideale è il Professore: realizzare la rapina del secolo che sognava suo padre, ucciso davanti a una banca durante una rapina. Romantica, ma un po’ debole come motivazione globale: magari il Prof avrebbe reso più fiero suo padre se avesse sfruttato appieno le sue potenzialità da geniaccio in maniera legale.

Ma è inutile continuare a ricercare la motivazione sottostante, il fine ultimo. La verità è che La Casa de Papel può essere anche considerata come uno splendido e meravigliosamente costruito guilty pleasure. Intrattenimento, fortissimo e ben riuscito, senza ulteriori pretese clamorose.

O forse no. Forse gli sceneggiatori volevano farci credere che se crediamo all’impossibile, possiamo realizzare il possibile delle nostre vite, quello che spesso non raggiungiamo per eccesso di pigrizia o per mancanza di forza d’inerzia. “Se questi qua hanno realizzato un’impresa del genere, alla fine voi potete tranquillamente realizzare le piccole imprese che desiderate per le vostre vite”. Forse è questo il motivo per cui ci siamo esaltati: perchè qualcosa, guardando questa serie, ha preso a ribollirci dentro in maniera fortissima e con un’intensità trascinante.

In fondo non ci si esalta mai, davvero, senza senso. Ma la ricerca spasmodica e chirurgica dell’Impresa, senza nessun altro senso dominante attorno, è sicuramente ciò che ha reso questa serie una piccola grande gemma di questa stagione seriale. Il problema, adesso, sarà trovare il senso-post Impresa. Perchè la seconda stagione alzerà inevitabilmente le aspettative in relazione a questo: non se la possono cavare semplicemente con un’altra rapina a un altro grande centro di potere e denaro. Se no si rischia di perdere il senso della prima stagione. Ah, ma quindi il senso c’era? Alla fine sì, dai. E ci siamo esaltati pure parecchio. Chi lo nega è un Arturito.