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Home » Hanno Ucciso L'Uomo Ragno - La leggendaria storia degli 883

Dedicato a chi ha spazzato via l’Uomo Ragno (ma anche a chi non si è spezzato e non lo farà mai fuori)

Max Pezzali e Mauro Repetto in una scena di Hanno ucciso l'Uomo Ragno
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Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla serie tv Hanno ucciso l’Uomo Ragno

Ebbene sì: siete finiti dentro l’ennesimo articolo su Hanno ucciso l’Uomo Ragno. Un articolo, peraltro, insopportabilmente retorico (per un motivo specifico). L’ennesimo articolo destinato prima di tutto a chi sta scrivendo, sperando che dall’altra parte ci sia qualcuno che abbia vissuto e stia vivendo le medesime sensazioni. In fondo, il segreto del successo è principalmente qui: questa serie sta piacendo perché racconta una storia universale con un piglio innovativo e a suo modo genuino. Ha generato un sentimento condiviso, portando quindi a un’esperienza collettiva. Tutti abbiamo voglia di guardarla, tutti ne vorremmo di più. Tutti abbiamo bisogno di parlarne, a fine puntata. E speriamo di incontrare qualcuno come noi, o magari diverso e con un approccio affine a questo bel racconto. Quante serie tv hanno fatto altrettanto, negli ultimi anni? Quante l’hanno fatto, e basta?

Mi fermo qui, per ora: i segreti del successo di Hanno ucciso l’Uomo Ragno vanno ben oltre questo, e sconfinano nella creazione di un’alchimia perfetta che riguarda vari aspetti.

A poche ore dalla visione delle ultime due puntate (disponibili, come sempre, su Sky e Now), resta però una domanda nella mia mente: di cosa ha voluto parlare, davvero, Sydney Sibilia? Degli 883, sicuramente. Ma qui non si parla solo degli 883. Degli anni Novanta, dei ventenni che furono trent’anni fa e dei trentenni che siamo oggi? Sì, certo. Ma anche no: Hanno ucciso l’Uomo Ragno non è la solita – stucchevole – operazione nostalgia. No, non serve a ricordarci quanto fossero belli dei tempi che belli magari manco lo erano sul serio. Ma sì: serve ad aggrapparci a chi eravamo e a chi siamo, forse addirittura a chi saremo. Perché ha ragione Vincenzo Galdieri, quando scrive nel suo pezzo che “non ci fosse mai capitato di avere a che fare con dei ricordi che, in qualche incomprensibile e magico modo, profumassero anche di futuro“.

E allora la mia risposta è una: il vero protagonista di Hanno ucciso l’Uomo Ragno è… la sua vittima. L’Uomo Ragno, morto e sepolto (?). Vittima, vera o presunta. Perché talvolta è viva, come non mai. Anche a distanza di decenni.

Sì: questa è la storia di Mauro Repetto e di Max Pezzali, ma è anche un perfetto ritratto generazionale. Talmente fedele da aver portato con sé anche le generazioni successive, fino a farci capire che le barriere tra un’era e un’altra siano più labili di quanto possano sembrare. Davvero i ventenni e i trentenni di oggi sono così diversi rispetto a quelli di trent’anni fa? Secondo me, no. E visto l’impatto trasversale della serie, potrebbe addirittura essere vero: la Generazione Z, d’altronde, sembra aver sviluppato una certa sensibilità e una notevole consapevolezza a proposito delle proprie aspirazioni e dei compromessi necessari per combinare cosa serva e cosa si voglia davvero, connettendola efficacemente al racconto di un’altra epoca.

Hanno Ucciso L'Uomo Ragno 1x05/1x06, Max e Mauro negli studi di registrazione
NOW

Hanno ucciso l’Uomo Ragno è (anche) il sogno di due ragazzini che si erano messi in testa di conquistare il mondo, finendo per farlo sul serio.

Un sogno che sfugge alla retorica e ai cliché, in nome di una sana botta di realismo che li ha portati dove li ha portati. La stessa che ha impregnato l’opera di Sibilia, eclettica ma mai autoreferenziale, ancorata all’onestà di una storia raccontata col piglio di uno che aveva voglia di raccontarla sul serio. Sì, è il loro sogno: loro, l’Uomo Ragno, se lo sono portati dietro per tutta la vita, anche se la vita è molto più complessa di così e rifugge le logiche binarie.

La serie è uno scrigno fiabesco (ma non rassicurante) che immortala un momento, ma l’Uomo Ragno ha avuto più di una difficoltà per sopravvivere dentro e soprattutto oltre i confini del racconto di fantasia.

Cosa significava, voler realizzare un sogno negli anni Novanta? Cosa significa, farlo oggi? In fondo, le risposte sono sempre le stesse: il mondo e le sue prove sono cambiate, noi no. E la serie ha avuto la forza di evidenziarle attraverso ognuno dei suoi protagonisti, con un linguaggio e un’espressività affini a ciò che aveva fatto grandi gli 883 trent’anni fa. Perché i vent’anni sono un libro dai fogli ancora bianchi, da scrivere. Mentre a trenta ci si guarda alle spalle e ci si rende conto di averli scritti nei modi più disparati, più o meno consapevolmente.

Guardare Hanno ucciso l’Uomo Ragno implica, per forza di cose, l’idea di fare i conti con noi stessi. Attraverso un modello imperfetto (in quanto vero), creato dalla popstar Max e dal ragazzo che la gloria l’ha poi cercata altrove, Mauro. Implica pensare a chi volessimo essere a vent’anni e a chi siamo oggi, dopo dieci, venti o trent’anni: l’Uomo Ragno è ancora con noi? Oppure l’abbiamo ucciso senza volerlo, in nome di una vita in cui i sogni non hanno avuto la fortuna e l’audacia di trovare uno spazio? Guardiamo a Max e a Mauro ma anche a Lello, il ragazzo che Hanno ucciso l’Uomo Ragno l’ha ispirata. Per non parlare di Cisco e del suo Jolly Blu, di Silvia e del suo salto nelle incognite irlandesi.

Non basta il coraggio, per tenere in vita l’Uomo Ragno: serve la fortuna di essere al posto giusto al momento giusto, e la follia di chi diventa grande con lo spirito immacolato (e allo stesso tempo disilluso) di un bambino.

Questa serie ha avuto la forza incredibile di proiettarci nel presente e nel futuro almeno quanto abbia fatto con un passato che si ridisegna nei nostri ricordi, dentro una forma troppo bella per essere davvero realistica.

Hanno Ucciso l'Uomo Ragno: una scena della serie tv, uscita a ottobre
Credits: Sky

Hanno ucciso l’Uomo Ragno non ha una lezione da trasmetterci: più che un padre, è un fratello maggiore. La forza dei suoi messaggi sta nella sua semplicità. Una semplicità necessaria, la stessa dei primissimi 883 in cui milioni di ragazzi si erano riconosciuti e ritrovati. Una semplicità necessaria e indispensabile. Indispensabile per riscrivere delle lezioni che ognuno di noi ha dentro di sé da sempre, ricordarcele e riportarci al libro dai fogli bianchi anche dopo decine di capitoli fitti di eventi. Fino a trarne uno spunto, preziosissimo: l’Uomo Ragno, talvolta può risorgere dalle ceneri.

Persi come siamo nell’idea che certi amori siano impossibili e certi obiettivi irrealizzabili, ci si è convinti che debba andare in questo modo a prescindere. Tutto va, come deve andare?

Ma è davvero così? Sì e no: quel che è certo, è che ognuno di noi dovrebbe darsi l’opportunità di scoprirlo da sé. E visto che troppo spesso lo si dimentica mentre si è presi dalla costante incombenza delle prove quotidiane, sia benedetto chi come Sibilia ci trascina via dal loop per un viaggio su una personalissima macchina del tempo. Siano benedetti, quindi, gli 883 e il loro esempio asimmetrico, quello della timida popstar e del “ballerino” che ha cercato l’America per non smarrire definitivamente la propria identità. Sia benedetto l’Uomo Ragno, ovunque si è nascosto: forse non è mai stato ucciso, no?

Ci proverà chissà chi, chissà cosa. Noi stessi, su tutti. Ma alla fine tornerà sempre, non appena arriverà qualcuno capace di raccontare una bella storia meglio di chiunque altro. Per coinvolgere tutti, e per avvicinarci per un attimo all’idea che la strada dalla tavernetta al palco più prestigioso possa essere ancora percorribile. Suona fastidiosamente banale, tutto ciò. Puzza di retorica lontano un miglio, tutto quello che ho scritto. Ogni tanto, però, quella retorica serve anche ai primi degli antiretorici. Così come serve una serie che retorica non è ma scaturisce facilmente dei pensieri di questo tipo. E che affonda le radici su storie universali che non ci si stancherà mai di vivere e rivivere.

Non so, francamente, se fosse questo l’intento di Sibilia. Forse aveva solo voglia di scrivere un bel romanzo televisivo e di modellare la realtà attraverso una prospettiva unica, o forse ha cercato di trasmetterci davvero una lezione.

Quel che so è che un’opera del genere ha la capacità di raccogliere comunità stratificate di fronte a un solo schermo, finendo per offrire spunti diversi a chiunque la guarda. Con me è stato così, per voi chissà. So anche che avrete voglia di parlarne, con qualcuno e in qualche modo. E che l’Uomo Ragno, da qualche parte, finirete per sentirlo respirare. L’Uomo Ragno, allora, vive ancora. Chi l’abbia riportato in vita ogni volta che è stato ucciso, non si sa.

Antonio Casu