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Soffi di morte e aliti di vita. Gomorra, il cerchio si chiude (per ora)

Finale di una stagione che prometteva fuoco e fiamme e , probabilmente, ha mantenuto le promesse. Senza dubbio la seconda stagione di Gomorra è stata ricca di sorprese sia in positivo che in negativo.
Abbiamo visto sfumare e sparire personaggi di punta e altri nuovi, potenzialmente assurdi, comparire per poco, troppo poco, tempo. Analisi che tutti noi abbiamo fatto nel corso degli episodi, in cui in coro come un mantra impazzito ci ripetevamo che sarebbe successo qualcosa che nessuno di noi si sarebbe aspettato.

Ed in realtà è vero: i 10 episodi che hanno preceduto il finale di stagione di Gomorra, sono stati preparatori per quello che a mio avviso è stato l’apice assoluto del serial.

Sotto certi punti di vista prevedibile ma per niente scontato. Abbiamo ipotizzato la trama, gli avvenimenti di Gomorra… muore questo, lo uccide quell’altro, ma la potenza visiva è stata fuori da ogni ipotesi.

Savastano, incattivito dalla latitanza e assetato di vendetta, non è pronto a dare il perdono a quei cani infami che lo hanno tradito e si sono spartiti pezzo dopo pezzo la carcassa dei suoi averi. No, Don Savastano brama sangue. Il sangue di Ciro, traditore ed assassino. Il tempo della strategia è finito. Ucciso o’ Mulatt, l’alleanza nuova trema e vacilla in una nube di paura.

“L’unica cosa ca ci può fottere è ‘a paura.”

O’ Zingariell sarà il primo a farsi fottere. Non ha niente da offrire a Don Pietro, se non Ciro, l’unica cosa che Savastano vuole davvero. Ma Di Marzio ha fatto bene i suoi conti e non si lascia fregare da un ragazzino. Ha uomini ed armi: è pronto a fare la guerra, anche da solo.

“E allora che dobbiamo fare? Dobbiamo fare una preghiera pe’ l’anima soij…”

O’ Zingariell soffoca, strangolato dal guinzaglio infernale del vecchio padrone. Il cane da caccia che non prende niente, non serve a niente.
Ora è tutto pronto, ora ha tutto un senso. Finalmente le fazioni si sono schierate: Ciro contro Don Pietro, due Re per un solo regno che senza guida rischia di sgretolarsi in mano alle guardie.
Genny deve decidere da che parte stare, è arrivato anche il suo momento.
Il sangue di quel cognome bolle nelle vene, e lo costringe a fare i conti con tutto quel bordello da cui era stato cacciato. L’esilio laziale ha portato i suoi frutti: una famiglia nuova in arrivo, un matrimonio da pianificare e affari fatti con la testa e non con la pistola che fruttano benefici visibili.
Genny si atteggia ad imprenditore criminale moderno che poco ha da spartire col boss camorristico vecchio stile, stile Don Pietro.
Ma in quel sangue scorre ancora forte il veleno. Il veleno della serpe che pulsa dal fondo delle viscere e ammala Gennaro lentamente.

“Sim nuj i cchiù fort…”

Gennarino è cresciuto. Adulto ed emancipato, sistema i tavoli per il ricevimento nuziale mentre programma di vendere il suocero agli sbirri affinché possa gestire in solitaria gli affari romani.

E’ stanco di essere l’aiutante, colui che contribuisce alla nascita delle cose per poi raccogliere le briciole di un banchetto a cui partecipa come ospite silenzioso e mai come padrone di casa.

Genny è intenzionato a stare solo da una parte: la sua.
Intanto a Secondigliano i morti aumentano, gli affari crollano e paura e passione si fondono in una danza di scene che si alternano tra amore e terrore.
Ciro aumenta la scorta, strapaga specchietti e pali per aumentare la sorveglianza e Don Pietro riscopre il calore di una femmina. La sua femmina: Patrizia.
Carezze e baci, sguardi e impulsi di una passione ritrovata. La vita che riparte dopo essere stata bloccata per tanto, troppo tempo. Don Savastano è invincibile, lentamente ha recuperato tutto quello che pensava di aver perso e soprattutto ora, anche Ciro trema.
Di Marzio non si sente al sicuro; gli alleati sono stati uccisi uno dopo l’altro ed oltre ad essere solo, ora deve convivere con il pensiero che il prossimo sarà lui.
Scorta la figlia fino alle macchine, tre, che l’accompagneranno a scuola come ogni mattina, un bacio in fronte e la promessa di ritrovarsi la sera a casa.
Quella macchina pochi secondi dopo verrà travolta della rabbia di Don Pietro.
Malammore bacia la croce che tiene al petto, invocando il perdono che spera di avere da Dio. Perdono che sicuramente non avrà dal padre di quella creatura che sta per uccidere.
La bimba trema, soffoca il pianto, invoca pietà… Malammore preme il grilletto e con un colpo vince la guerra di Savastano.
Pioggia che si mischia alle lacrime fredde come il marmo sotto il quale riposa in pace, adesso, l’ultima cosa che legava l’Immortale alla vita.
Niente ha più senso, cosa si era messo in testa Ciro? Voleva fare la guerra al più forte di tutti, quello da cui ha imparato a comandare, ma a quale prezzo? Uccidere gli amici, la moglie, tradire il suo clan e adesso perdere la cosa più importante di tutte: sua figlia.
“Prendete e spartitevi tutto quello che trovate in cassaforte… lasciatemi solo!” Vuole morire, perché è già morto. E’ morto piano piano, ogni colpo di pistola in quella guerra gli ha fatto perdere un pezzo di vita e di umanità. Arrendersi alla sconfitta non serve a niente. Serve un angolo freddo e buio dove morire per riconciliarsi al padre e trovare pace.
Chiudere gli occhi e non sentire più niente. Vanificare tutto, perché tutto adesso è niente.
I fuochi artificiali illuminano i rioni del regno Savastano; Don Pietro è tornato.

In un angolo umido, l’immortale aspetta la sua fine, da solo. Ma solo non è.
Non lo è mai stato. Gennaro lo ha sempre guardato da lontano e adesso è lì.

“O’ Velen…”

Veleno e fame ancora una volta uniscono i due protagonisti.
Resta solo una cosa da fare.
Don Pietro va a trovare la moglie al cimitero, saluta ed accarezza il marmo gelido di una tomba. Si costerna, si scusa, si auto-assolve dai peccati che ha commesso e confida alla sua vecchia compagna l’intenzione di sposare la sua Patrizia.
Attende il figlio, probabilmente per comunicare la buona nuova ma alle sue spalle aleggia lo spettro di Ciro.
Don Pietro non ha scampo, è pronto e consapevole. Sta per morire, appena dopo aver ritrovato qualcosa per cui vivere.
L’Immortale, stanco e pallido, in un gesto tanto sterile quanto potente spara in fronte al suo nemico. Gennaro con una mano regge la pistola da cui parte il colpo e con l’altra stringe la mano della moglie nell’ultimo sforzo che da alla luce suo figlio.
La vita e la morte.
Il silenzio di un corpo che giace a terra e l’urlo del primo fremito di vita. Un Pietro nasce, un Pietro muore.
‘A FINE D’O JURNO STA TUTTA CCA’…