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Perché Perfetti sconosciuti ha avuto così tanto successo all’estero?

Qualche giorno fa, con l’annuncio della versione islandese, Perfetti sconosciuti ha battuto il suo stesso record di remake realizzati, arrivando all’incredibile numero di 20 in tutto il mondo. Fu quello greco che, uscito a pochi mesi di distanza dall’originale, aprì la strada alle tantissime produzioni internazionali dell’opera di Paolo Genovese. La domanda, allora, sorge spontanea: perché un film, così radicato nella cultura italiana, è apprezzato in questo modo fuori dai nostri confini, tale da ergersi a modello da imitare? In fin dei conti, non ci troviamo davanti una trama originale; anzi, Genovese si rifà alla lunga tradizione teatrale, che va dalla commedia degli equivoci dell’antichità fino al dramma del primo Novecento e oltre.

È proprio la ripetibilità di una storia già vista a essere uno dei punti di forza di Perfetti sconosciuti.

La ripetizione facilita la fruizione e garantisce l’immedesimazione, qualità che il pubblico ha sempre gradito, che sia quello che sedeva nei teatri dell’antica Grecia o che oggi si butta sul divano e accende Netflix. Dunque, dato che si tratta sempre della stessa narrazione, è facile adattarla e modificarla in base al contesto in cui si trova. E se a ciò vengono uniti un cast da urlo (Kasia Smutniak, Marco Giallini, Edoardo Leo, Alba Rohrwacher, Valerio Mastandrea, Anna Foglietta e Giuseppe Battiston) e una premessa tanto semplice quanto geniale, il gioco è fatto.

Insomma, a tutti è capitato di essere invitati a cena dagli amici, di avere tra le fila quello che cucina, chi porta il vino, chi aiuta e chi si limita a mangiare. Ma Perfetti sconosciuti si sgancia dal concept della tipica rimpatriata già vista innumerevoli volte nei film italiani, soprattutto nelle commedie. Arriva allora l’espediente narrativo che stravolge le carte in tavola: Eva propone agli altri di mettere lo smartphone sul tavolo e, per tutta la sera, qualsiasi messaggio e chiamata arrivino devono essere condivisi con i presenti, senza alcuna privacy.

Perfetti sconosciuti

Ecco che Perfetti sconosciuti compie un’ulteriore e decisivo passaggio.

Partono dalla tradizione sì, ma regista e sceneggiatori riescono ad attualizzare questo film, raccontando e analizzando le relazioni di coppia e tra amici – cosa estremamente coinvolgente in ogni parte del mondo, centrale in ogni remake – a partire da quello che è diventato il custode delle nostre vite e dei nostri segreti più intimi, il vaso di Pandora che non vorremo mai aprire: il cellulare. Questi strumenti sono quasi delle appendici del nostro corpo e in Perfetti sconosciuti diventano addirittura dei personaggi con le proprie storie da raccontare. Attraverso di loro, vengono ricreate le dinamiche dei giochi di società, quelli più maliziosi alla Obbligo o verità e Non ho mai…; un espediente potentissimo perché tutti, italiani e stranieri, lo abbiamo fatto almeno una volta nella vita.

Anche noi siamo chiamati a partecipare ed entriamo nel cast, riempiendo l’ottavo posto al tavolo destinato alla fidanzata di Peppe. Non solo viviamo in prima persona le ansie, le contraddizioni e i sentimenti dei sette amici messi completamente a nudo, ma possiamo osservare da una comoda posizione di vantaggio le loro disavventure, spiando senza essere spiati a nostra volta.

Genovese, però, non demonizza la tecnologia; anzi la usa per indagare la natura dell’essere umano, ad esempio quando le donne vengono paragonate ai Mac e gli uomini ai PC. Semmai, punta il dito verso l’uso che ne facciamo, superando contemporaneamente la ridotta dimensione di coppia. Il problema, infatti, riguarda il dare per scontato ogni tipo di relazione; così l’unico rimedio pare essere quello di parlare senza uno schermo davanti, faccia a faccia, e arrivare a quelle scomode ma necessarie verità. Perché, come diceva Gabriel Garcia Marquez:

“Ognuno di noi ha tre vite: una pubblica, una privata e una segreta”.

Così, a quel tavolo, si riscopre il vero senso della condivisione, che non è in quel selfie scattato e postato sui social, ma è nell’alzare la testa dal cellulare e guardare davvero l’altro, come forse mai prima d’ora.

Fino a quel momento, infatti, non si conoscevano sul serio perché tutti indossavano delle maschere che celavano la loro parte più profonda, quel contenuto talmente pesante da costringerli a non essere sé stessi con gli amici di una vita. Come Peppe, che finge una relazione inesistente e non se la sente di dichiarare la propria omosessualità per paura – purtroppo molto fondata – di essere discriminato; come Cosimo, che tradisce sua moglie con Marika (rimasta incinta) ed Eva; come Lele e Carlotta, che hanno delle relazioni segrete online e nascondono un tragico segreto. Dietro quell’apparente divertimento si nascondono personaggi pirandelliani, dei perfetti sconosciuti che mostrano solo quello che ritengono socialmente accettabile per non essere giudicati.

Oltre alla maestria con cui Genovese costruisce i personaggi (ad esempio, quando Cosimo si toglie la giacca nervosamente, si capisce già che c’è qualcosa che non va) e al grandissimo cast, Perfetti sconosciuti è, dunque, un piccolo trattato sociologico sulle relazioni umane, sull’amore e sull’amicizia, sui pregiudizi e sulla genitorialità. E stavolta la bruttura non viene nascosta come solitamente succede nel nostro cinema. Dosando al meglio comicità intelligente e dramma catartico, il regista ci sbatte in faccia l’amarezza e la crudezza della nostra realtà e riesce ad amalgamare perfettamente temi e problematiche universali, visibili in ogni altro remake dell’opera.

Nonostante il Rocco di Marco Giallini parli dell’importanza del saper disinnescare, l’effetto domino creato da Genovese ci travolge e ci conduce a quel sorprendente finale alla Sliding Doors.

Perfetti sconosciuti

La cena finisce e, mentre nella nostra testa rimbomba la sinistra domanda “Ma io avrei avuto il coraggio di giocare?”, dobbiamo capire come digerirla. L’eclissi è passata e, con essa, si è portata via anche la parte più vera dei personaggi, che la nascondono di nuovo nel lato all’ombra della luna. Ed è questo che consente loro di rimanere amici e sposati. Eppure l’esclusione avviene lo stesso, tramite uno dei tanti gruppi Whatsapp che tagliano fuori Peppe, ma che sarebbe comunque avvenuta anche senza social e Genovese ce l’ha ampiamente dimostrato.

Perché, come abbiamo appena visto, Perfetti sconosciuti è un film complessissimo, la cui forza sta nell’inquadrare la contemporaneità con un selfie in cui siamo tutti presenti, aprendo una riflessione sulla difficoltà di stare al mondo, sulla socialità, sulle insicurezze, sui demoni e sulle emozioni che tutti abbiamo e tutti nascondiamo per non doverli affrontare. Al di là dell’economicità di un progetto del genere soprattutto in termini di location, sono queste le caratteristiche che hanno permesso a culture così differenti tra loro di fare il proprio remake, adattandolo al loro contesto: gli gnocchi possono essere facilmente sostituiti dalla renna islandese, il vino dai tovaglioli di carta sudcoreani o dalla frutta in Cina; in quest’ultimo non c’è il personaggio omosessuale (sostituito da una donna in carriera), mentre in quello danese, molto più aperto alle coppie LGBTQ, diviene una lesbica però sposata con un uomo; se in quello arabo, invece, il trattamento di determinate tematiche scatenò grandi polemiche, quello tedesco inserisce il lieto fine e rende, ad esempio, la figlia di Eva e Rocco più giovane perché in Germania i ragazzi diventano indipendenti prima che in Italia.

Insomma, è una storia ottimamente diretta da Genovese e meravigliosamente recitata dal cast, che parla a noi e di noi. Del resto, come disse il produttore Giampaolo Letta:

“L’idea alla base della storia funziona a Roma, come a Tokyo, come a New York”.

E non possiamo che concordare con lui.