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Doctor Who 9×11 – L’Inferno di Capaldi è un capolavoro

If you were any part of killing her and your not afraid than you understand nothing at all. So for your own sake understand this: I am the Doctor, I’m coming to find you and will never ever stop.

(Se hai avuto una parte nella sua morte e non sei spaventato, allora non capisci nulla. Così, per la tua salvezza, ascolta questo: io sono il Dottore, ti sto cercando e non mi fermerò mai e poi mai.)

Questa è una delle frasi iniziali di Heaven Sent, l’undicesima e penultima puntata della nona stagione, seconda parte della “trilogia” composta da Face the Raven (9×10), Heaven Sent appunto e Hell Bent (9×12). Come abbiamo potuto notare – e come Moffat stesso aveva dichiarato già all’inizio di quest’anno – questa stagione è stata composta prevalentemente da episodi doppi, escluso il controverso episodio nono, Sleep no more, scritto da Mark Gatiss.

L’episodio della settimana scorsa, Face the Raven, ha lasciato gran parte del pubblico scontento o comunque non del tutto convinto per la morte assurda di Clara, che sembrava inutile e fine a se stessa. Heaven Sent ha dimostrato che non è così, che quella morte, in fondo, era necessaria.

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Analizziamo l’episodio. Innanzitutto, bisogna dire che si tratta di un grande enorme monologo: il Dottore parla e parla e ancora parla senza che ci sia nessun altro sulla scena, nessuno che non sia The Veil, la terrificante creatura che lo sta rincorrendo, o la Clara della sua immaginazione. Questa è stata una delle cose più toccanti: il modo in cui il Dottore si rivolge a lei, quasi dimenticandosi in alcuni momenti che lei non può più ascoltarlo.

Ma, nonostante questo, Clara continua ad aiutarlo, ancora e ancora.

Scritto come un monologo teatrale, la puntata si regge, oltre che sulla scrittura magistrale di Moffat, anche sull’eccellente interpretazione di Capaldi, semplicemente mostruoso, sulla regia cupa e precisa di Rachel Talalay, sulle musiche coinvolgenti di Murray Gold e sulla scenografia a unico set, frammentato però in tanti set. Una curiosità: quando ho visto la prima volta le stanze del castello muoversi e quelle che sembravano le rotelle di un orologio ho sentito la voce di Hermione Granger nella mia testa: “alle scale piace cambiare”. Che Moffat si sia ispirato a Harry Potter e all’arena a orologio di Hunger Games per creare il palazzo delle torture?

Passiamo al personaggio del Dottore. La sua furia fredda, la sua totale nudità nel non potersi più nascondere dietro il suo cumulo di bugie – perché prima regola: The Doctor lies – il suo terrore e l’umana, spontanea ammissione lo rendono più che mai complesso e vicino a ognuno di noi. E anche simile a Sherlock nella puntata The Hounds of Baskerville (2×02). E in tutte le altre puntate. Le deduzioni, gli errori, persino il Mind Palace, tutto lo rende simile all’altro personaggio amato e costruito da Moffat. E, diciamocelo francamente, Moffat ama autocitarsi. E tenere lo spettatore incollato fino all’ultimo secondo.

Qualcuno potrà obiettare che il loop infinito era ovvio: gli indizi sicuramente c’erano. La mano bruciata e disintegrata all’inizio, i teschi inquietantemente simili alla forma del viso di Capaldi, le stanze che si ripristinano… Questo però non toglie nulla alla geniale intuizione né al modo in cui è sviluppata. E nemmeno alla infinita pazienza di Twelve che, realizzato cosa è successo davanti al muro in azbanzio (materiale 400 volte più duro del diamante), racconta la favola dei fratelli Grimm a cui Moffat si è palesemente ispirato per la stessa. E a ogni pugno in più che riesce a dare corrisponde un secondo di storia in più che riesce a raccontare alla Creatura. Una storia che termina su Gallifrey con l’ultima, scioccante affermazione: scappa da più di duemila anni perché l’ibrido che distruggerà il suo amato pianeta non è altri che lui.

E con quest’ultima frase, la puntata si chiude, lasciandoci nella palpitante attesa di Hell Bent, sabato prossimo alla solita ora su BBC One.