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Dickinson: dipartita, natura e ruolo di genere

Dickinson
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Quando si parla di Dickinson, la serie creata da Alena Smith per Apple TV+, non si parla soltanto di un biopic su una delle poetesse più misteriose e rivoluzionarie della letteratura americana. Dickinson è un esercizio lirico travestito da serie teen, un ibrido dove l’anacronismo diventa poetica, il femminismo diventa carne, e la morte… diventa un amante. Nel racconto, la morte non è solo una tematica, ma una presenza viva e seducente. Interpretata da un carismatico Wiz Khalifa, è un’entità con la quale Emily danza, letteralmente, durante le sue visioni. Ma la morte, qui, non è tragedia: è rivelazione, è rifugio, è la soglia dell’eterno. Nella mente della protagonista, la dipartita non è un nemico ma una compagna, spesso più comprensiva del mondo che la circonda.

Il rapporto tra Emily e la morte è una narrazione parallela. Di fatto, mentre tutti si affannano a definire la ragazza come repressa, malata o esagerata, è la morte che le riconosce profondità. In un mondo in cui la vita è rigidamente normata, è solo nel mistero del morire che Emily trova verità. E qui, la serie si avvicina all’esperienza poetica stessa: ogni componimento di Emily è un piccolo funerale di sé, ma anche una resurrezione. Inoltre, connessa a questo concetto ancestrale e vibrante, Dickinson prende la natura, spesso romanticizzata nella letteratura ottocentesca, e la trasforma in un organismo pulsante, sensuale, ambiguo. I fiori non sono solo belli, sono ossessivi. Gli alberi non sono solo rifugio, sono minaccia. Il paesaggio del Massachusetts diventa specchio dell’animo inquieto di Emily, una landa selvaggia in cui la sensibilità poetica si aggira come un animale notturno.

Hailee Steinfeld aka Emily Dickinson

La natura è un’estensione corporea di Emily Dickinson

La terra è qualcosa da toccare, annusare, scavare. Tanto che, in un episodio chiave, Emily si seppellisce letteralmente nella terra per scrivere, definendo una dichiarazione di poetica cruda, viscerale, anti-vittoriana. È nel fango, non nei salotti, che la poesia (ecco 5 serie tv sulla poesia) si fa viva. Non a caso, la protagonista, nella serie, è una ribelle senza slogan. Non urla, non marcia, non scrive manifesti. Ma ogni suo gesto, ogni rifiuto delle aspettative sociali, ogni sguardo allucinato, è una rivoluzione. Ecco dunque che qui, subentra puntuale la questione del ruolo di genere, nonché gabbia dorata da cui tenta di evadere con l’unica arma che ha: la scrittura.

Attraverso un linguaggio moderno e una colonna sonora pop-hip-hop, la serie costruisce un ponte tra l’oppressione del XIX secolo e le inquietudini contemporanee. L’aspettativa matrimoniale, la maternità imposta e il silenzio sociale, Dickinson li affronta con una regia nervosa e ironica, tra ralenti, monologhi interiori e visioni psichedeliche. Emily ama una donna, Sue, ma il mondo le dice che non può. Lei vuole scrivere, ma tutti vogliono che cucia. Sogna l’eterno, ma il padre vuole che faccia la brava figlia. Eppure, la ribellione più potente sta nel fatto che non cerca di piacere a nessuno.

La protagonista non cerca approvazione

Infatti la resistenza di Emily è fatta di silenzi, lettere mai spedite e versi lasciati in un cassetto. In questo senso, la serie ci racconta una forma di femminismo pre-ideologico, quello dell’autonomia creativa come atto politico. Detto ciò, anche l’anacronismo in Dickinson non è un vezzo estetico, ma un atto critico. Mettere in bocca a personaggi ottocenteschi battute da meme o canzoni di Billie Eilish significa rompere il tempo, mettere il presente e il passato in cortocircuito.

E scoprire che, alla fine, le inquietudini di Emily non sono poi così distanti da quelle delle ragazze di oggi. Il cortocircuito è volutamente destabilizzante, in quanto ci ricorda che il tempo storico è una costruzione e che i conflitti di genere, creatività e libertà sono sempre lì, sotto la superficie. Pertanto, la Dickinson di Hailee Steinfeld non è quella dei manuali scolastici: è nervosa, sarcastica, straziante. È una ragazza che si domanda che senso abbia esistere in un mondo che le sta stretto.

Una scena della serie tv Dickinson

Nel panorama di Apple TV+ Dickinson è un piccolo miracolo di audacia

Arrivata nel 2019 come una delle serie di lancio della piattaforma, sembrava inizialmente un esperimento bizzarro. Una serie in costume, ma con uno spirito da Tumblr post-2010, una regia da videoclip indie e una colonna sonora da playlist Gen Z. Dietro la sua estetica pop e a tratti surreale si nasconde però una cura filologica e autoriale rara per una produzione mainstream. La showrunner Alena Smith, proveniente dalla scrittura di The Newsroom e da un background teatrale, ha infatti concepito Dickinson come un’opera in tre atti.

Le tre stagioni raccontano infatti tre fasi dell’evoluzione di Emily: la ribellione adolescenziale, la lotta per l’autonomia creativa e infine la consapevolezza della propria solitudine come destino e forza. Il tono cambia, si oscura, si fa sempre più stratificato, fino a culminare in un finale visionario e spirituale. Girata prevalentemente in location reali del New England e con una cura maniacale per i costumi, che non hanno paura di ibridarsi con elementi moderni, Dickinson si è costruita un’identità visiva unica. Per questo, è una produzione che ha osato non piacere a tutti, scegliendo consapevolmente l’irregolarità come linguaggio.

Tuttavia, sebbene non abbia mai raggiunto il successo mainstream di altre serie Apple come Ted Lasso (qui un focus sulla gentilezza di Ted Lasso) o The Morning Show, Dickinson ha lasciato un’impronta profonda in un certo immaginario culturale. È diventata un oggetto di culto tra giovani spettatori queer, appassionati di letteratura e fan della cultura alternativa. Infatti, in un momento storico in cui le serie tv spesso rincorrono le mode, Dickinson ha dettato un’estetica propria, ironica, quasi onirica e anticonvenzionale.

La biopic ha contribuito a riscrivere la figura della poetessa

Questa ha sottratto la protagonista al mito della “zitella triste” per restituirle una voce vitale e desiderante. E l’aver riportato l’attenzione sul suo corpus poetico, spesso ancora poco conosciuto fuori dagli ambienti accademici, è già un merito enorme. Ma ancora più rilevante è il modo in cui la serie ha ispirato un’intera generazione di spettatori a vedere la creatività non come ornamento, ma come forma di dissenso. Qui, Hailee Steinfeld ha offerto una delle interpretazioni più originali del panorama seriale contemporaneo. La sua performance, insieme alla struttura narrativa spiazzante e alle scelte musicali coraggiose, ha trasformato Dickinson in un manifesto poetico travestito da serie tv.

Non ha cambiato le regole del gioco, ha ne ha organizzato uno tutto suo, e ci ha invitati a giocarci dentro. Pertanto, in questo show la poesia non salva, ma permette di sopravvivere. È l’arma segreta, il rifugio mentale, la vendetta (ecco i migliori film sulla vendetta) silenziosa. In un mondo che non ha spazio per una come lei, Emily lo crea con le parole. Ogni episodio è un frammento del suo sforzo disperato di esistere secondo le proprie regole. E forse è proprio per questo che Dickinson non è solo una serie su una poetessa, ma un manifesto su tutte quelle persone senza privilegi, che hanno osato scrivere anche quando nessuno voleva leggere.