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La lezione francese di Call My Agent: non si vive solo per lavorare

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla versione francese di Call My Agent

Il telefono squilla, squilla sempre. Il pranzo di lavoro è sempre dietro l’angolo, magari dopo una colazione di lavoro. Prima di una cena di lavoro che anticipa una bella serata… di lavoro. E pure di notte non ci si può rilassare o addirittura dormire. Potrebbe esserci bisogno di loro in qualunque momento, anche alle quattro di notte: una call, tra un incubo e l’altro. No, non ci sono pause. No, non c’è tempo da tempo. No al tempo libero: no alla vita privata. No alla vita, punto. Che stress, per i protagonisti di Call My Agent. Quella francese, l’originale. Tanto bella da aver dato vita in pochi anni a diversi remake, tra i quali spicca l’italiano in onda nelle scorse settimane su Sky. Bellissima, e vera. Perché Dix pour Cent non è solo una serie tv che parla di un gruppo di agenti che devono fronteggiare – con grande ironia – le bizzarrie di alcuni tra i più importanti attori e registi del cinema francese, ma anche una serie che parla del mondo del lavoro e delle sue derive. Un mondo sempre più innaturale, sempre meno a misura d’uomo. Un mondo nel quale il servizio si trasforma in un sacrificio totale. E il sacrificio totale in un martirio che mette a durissima prova il corpo e l’anima dei suoi protagonisti, senza lasciare spazio a nient’altro.

Tra i tanti temi affrontati nel corso delle sue quattro stagioni, uno emerge più di tutti gli altri e sembra star particolarmente a cuore ai brillanti autori della serie: la piaga del workaholism, un problema purtroppo universale che coinvolge in misura diversa una percentuale troppo significativa di persone. Prima di avventurarci nel tema, chiariamo meglio per chi – legittimamente – non conosce il conosce il significato del termine: con workaholism, si intende una sindrome da dipendenza da lavoro, il disturbo ossessivo-compulsivo di un soggetto che esagera nel lavorare al punto da mettere in secondo piano la vita sociale e familiare, oltre a tutto il resto. Si parla di una problematica significativa che incide pesantemente sul benessere degli individui.

E Call My Agent, dal canto suo, sembra averlo capito benissimo: i suoi protagonisti, infatti, sopravvivono sull’orlo costante di una crisi di nervi, fino a venir fuori nei modi più disparati.

Si pensi a Mathias, il personaggio più sfaccettato della serie, che arriva ad avere un infarto nel momento in cui le pressioni lavorative si sovrappongono fatalmente a una vita privata dalla gestione piuttosto complessa. Oppure ad Andrea, costretta a rinunciare all’amore della vita ed esausta nel crescere una figlia arrivata per puro caso – e non certo voluta, almeno all’inizio – mentre deve risolvere i problemi più assurdi delle sue star. O a Gabriel, equilibrista fallace nel trovare una compatibilità tra le sue esigenze lavorative e quelle amorose. Altro che Arlette: lei sì, è riuscita a trovare una sintesi efficace negli anni del tramonto. Quella che purtroppo non ha avuto occasione di trovare Samuel Kerr, fondatore dell’agenzia ASK, morto per un beffardo scherzo del destino proprio nel momento in cui aveva deciso di prendersi finalmente uno spazio per respirare, andando in vacanza dopo lunghi anni di lavoro ininterrotto.

Le quattro stagioni di Call My Agent incalzano costantemente sul tema: gli agenti lavorano troppo, non hanno orari, non hanno pause, non intravedono più un confine tra quello che dovrebbe essere lavoro e quello che dovrebbe essere tutto il resto.

Finiscono per non avere più una vita, oltre il limite di quel che richiede una professione esasperante che non conosce compromessi al di fuori della reperibilità aprioristica. Devono stare sul pezzo sempre e comunque, a prescindere. Fino a implodere e dissolversi. Uno scenario desolante, purtroppo piuttosto realistico. Con un messaggio di speranza finale: nell’episodio conclusivo di Call My Agent, infatti, vediamo Andrea decidere di chiudere la sua carriera per dedicarsi alla figlia e alla coltivazione di una vita più serena in cui essere più libera, Matias rallenta i ritmi, rinuncia alle sue ambizioni più estreme e decide di supportare la figlia Camille nell’apertura di una nuova agenzia, mentre Gabriel sceglie l’amore e decide di sacrificarsi sul piano lavorativo per regalare alla sua amata un’importante opportunità di carriera.

Insomma, a un certo punto i protagonisti hanno detto basta. E si sono imposti su loro stessi per tirare il fiato, trovare un maggiore equilibrio e vivere appieno le loro vite. Una lezione preziosa arrivata da una serie tv che è andata in onda tra il 2015 e il 2020 – anche se potrebbe tornare presto con un film conclusivo – e che il mondo sembra aver in qualche modo appreso senza saperlo. Al di là del successo internazionale della serie tv, è successo qualcosa di importante negli ultimi tre anni: la pandemia, con annessi i lunghi periodi di lockdown che ci hanno costretto a stare chiusi in casa, ci hanno portato a riflettere più a fondo sul nostro modo di concepire il lavoro. E alle soluzioni da adottare per evitare di cadere nel workaholism, trovando un miglior bilanciamento: da qui è nato il modello della settimana lavorativa corta, e non solo.

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Il dibattito è aperto e sta coinvolgendo svariati Paesi: Stati Uniti e Regno Unito, ma anche Islanda (pioniera in questo senso), Canada, Australia, Irlanda e tanti altri stanno testando infatti nuovi modelli nell’organizzazione del lavoro, riducendo le ore settimanali a parità di salario percepito per eliminare una giornata e lavorare per quattro giorni invece di cinque. I modelli testati sono in realtà i più disparati e ognuno di essi presenta pro e contro da analizzare con grande attenzione senza cadere in evitabili generalizzazioni, ma l’intento è sempre lo stesso: mettere i lavoratori nelle condizioni di lavorare meno per lavorare meglio, vivendo con maggiore benessere prima di andare incontro a importanti problemi di salute. E privilegiando allo stesso tempo una maggiore qualità del lavoro svolto, da non valutare più in meri termini quantitativi. I primi risultati sarebbero incoraggianti: la riduzione delle ore lavorative sembra stia portando nella maggior parte dei casi a un aumento della produttività, solo apparentemente paradossale.

È chiaro: la questione è complessa, sono inevitabili le problematiche per le aziende e non sarà semplice trovare una soluzione che possa accontentare tutti nel modo migliore possibile, garantendo così una sostenibilità della transizione verso una nuova idea di lavoro, ma quel che ci interessa capire ora è che il mondo stia prendendo coscienza di dover fare qualcosa a riguardo, prima di arrivare a uno spiacevole punto di rottura. La Call My Agent francese, dal canto suo, ha offerto un servizio importante in questo senso e ha immerso gli spettatori all’interno di un’esperienza in cui molti si sono rivisti pur facendo un lavoro completamente diverso. E ci auguriamo possa fare altrettanto la Call My Agent italiana nel corso delle prossime stagioni, visto che la nostra narrazione televisiva e cinematografica latita in questo senso. Nel nostro Paese, oltretutto, sembra non si sia ancora preso atto a sufficienza dell’esigenza di fare qualcosa di concreto per arrivare a un maggior benessere collettivo dei lavoratori.

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L’Italia, infatti, è uno dei Paesi dell’Unione Europea in cui si lavora di più. Secondo uno studio pubblicato sul Sole 24 ore nel 2019, condotto dall’Osce (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), il nostro Paese è il terzo dell’area euro dove si lavora mediamente per più ore a settimana (al pari di Grecia ed Estonia), per 33 ore totali. Tre ore in più rispetto alla media generale, non poche. Molte più della Germania, dove il totale è addirittura di 26. Dei Paesi Bassi (28), e di Austria, Francia e Lussemburgo, in cui si lavora per 29 ore. Questo ci permette di essere più produttivi degli altri? No, affatto. L’ha capito il gruppo Intesa Sanpaolo, la prima in Italia ad aver avviato nelle ultime settimane dei test (su base volontaria) per fare un passo in avanti nell’organizzazione del lavoro, ma non sembra che il Paese nel suo complesso abbia ancora deciso di muoversi attivamente in questo senso.

Anche per questo ci auguriamo che la nostra Call My Agent abbia modo di affrontare la questione nei prossimi episodi, contestualizzare nella nostra realtà i problemi che l’omologa francese aveva usato per caratterizzare i suoi personaggi e, perché no, contribuire ad alimentare un dibattito – soprattutto all’interno della classe politica – del quale il nostro Paese avrebbe un gran bisogno. Lo certifica, se necessario, anche un altro dato degli ultimi giorni: secondo quanto riportato dal Ministero del Lavoro, nei primi nove mesi del 2022 oltre 1,66 milioni di italiane e di italiani hanno lasciato volontariamente il lavoro. Per motivazioni diverse legate anche alla ricerca di un’occupazione più adeguata alla mansione ricoperta sul piano economico, certo, ma la necessità di trovare un maggiore equilibrio tra la vita lavorativa e tutto il resto è altrettanto prioritaria in tantissimi casi.

Al di là del lavoro che si fa, questo è quindi un problema che riguarda tutti noi. E va affrontato oggi, senza più rinvii. Perché si lavora per vivere, ma non si deve vivere per lavorare. E il dieci per cento che ha dato il titolo alla serie francese, ispirato alla percentuale percepita dagli agenti su ogni contratto firmato dai propri assistiti, non può più rappresentare – quando va bene – il tempo da dedicare a noi stessi. Perché nessuno di noi vuole fare la fine di Andrea, Gabriel e Mathias, no?

Antonio Casu