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Fenomenologia di Paolo Bitta, l’uomo sbagliato al momento giusto

L’Italia degli anni 2000 era un paese molto diverso da quello che conosciamo oggi, per svariati motivi e in molteplici contesti: la televisione era senz’altro uno di questi, e la dimostrazione concreta sono programmi come Camera Café, uno dei principali esempi di sitcom all’italiana di quei tempi; tempi in cui il politically correct non era nemmeno lontanamente nei pensieri delle writing room della tv (e del cinema) italico. Le stesse writing room in cui, un bel giorno, nacque l’idea di dar vita e voce a uno dei personaggi più scorretti che la cultura pop recente del nostro ricordi: Paolo Bitta, l’uomo chiamato contratto. Paolo Bitta e Luca Nervi erano la rappresentazione dell’italianità media di quegli anni, e il primo incarnava tutti i cliché e i limiti culturali del nostro paese. Camera Café è stato (ed è tutt’oggi) un programma divisivo, al di là del concetto di politically correct, perché un certo tipo di linguaggio e di comicità non è sicuramente dedicata al mainstream. Oggi vogliamo soffermarci sulla fenomenologia del personaggio più rappresentativo della serie, quello più amato ma anche più criticato dai detrattori della sitcom di un tempo: Mr. Paolo Bitta, l’uomo sbagliato al momento giusto.

Paolo Bitta o lo si ama o lo si odia, questo è fuor dubbio, ma se ci si ricorda ancora oggi di lui un motivo deve pur esserci.

Paolo bitta
Camera Café (640×360)

Al giorno d’oggi immaginarsi una puntata di Camera Café in cui Paolo Bitta e Luca Nervi (Paolo Kessisoglu e Luca Bizzarri) passano l’intera giornata lavorativa a bullizzare Silvano, Patty e Pippo e a inventarsi la qualsiasi pur di non lavorare, tra rutti, giochi pericolosi e storie sconce sulle ultime conquiste di Paolo, è praticamente impossibile, e questo è il motivo fondante del rapido declino che la sitcom ha avuto nelle ultime due stagioni, l’ultima delle quali trasportata sui canali Rai, ulteriore passo verso una fine telefonata e inevitabile. Non è questa la sede per tali considerazioni, ma per quanto ci sia anche qualcosa da salvare negli ultimi due capitoli della sitcom italiana più scorretta degli ultimi vent’anni, è evidente la differenza di toni e contenuti rispetto ai vecchi tempi di Mediaset. I tempi sono cambiati, come cambiano per tutti: Luca e Paolo non potevano più essere i buontemponi che conoscevamo, e l’unico modo per portarli avanti nella narrazione era quello di relegarli al ruolo di boomer di turno. Tra i due, quello che ha sofferto maggiormente questo “declassamento” è stato sicuramente Paolo Bitta, che ha perso tutta la verve di un tempo e ha dovuto rinunciare per forza di cose alla autodistruttiva costruzione del suo personaggio, cosa che lo aveva reso unico nel suo genere.

Camera Café (640×360)

Paolo Bitta, tra il 2003 e il 2008, è stato l’uomo sbagliato al momento giusto, perché per quanto fosse rozzo, psicologicamente e fisicamente violento, talvolta indigesto, era precisamente ciò di cui il mercato televisivo italiano (o dell’intrattenimento in generale) necessitava in quel momento: in un periodo in cui la tv non aveva filtro alcuno e il Paese si dirigeva a grandi passi verso una brutta crisi economica di cui ancora oggi si sentono gli effetti, tornare a casa dall’ufficio e godersi la scorrettezza di un uomo qualsiasi che incarnava i desideri e i vizi dell’italiano medio era un guilty pleasure per molti, anzi moltissimi telespettatori. Molte volte non c’è una spiegazione per il successo, ed è assolutamente comprensibile che oggi in tanti guardino indietro verso Camera Café e vedano la rappresentazione del fallimento di una società che adesso non esiste più, ma non bisogna scordarsi di chi ha reso la sitcom un successo: chi c’era sa e non dimentica. Paolo Bitta è un ottimo esempio di scrittura di un personaggio che inglobasse al meglio il target di riferimento della serie, perché in tutte le sue imperfezioni e scorrettezze ha rappresentato un mito per tanti spettatori. Ma attenzione, non si è mai trattato di un mito positivo, quanto più di un mito da ammirare da lontano e di cui farsi beffa: ridere di lui e non con lui, per intenderci. Ma questo discorso, nella tv di oggi, è davvero troppo complesso da affrontare.

C’era un tempo in cui la tv non doveva né voleva essere strumento educativo, o almeno non sempre, e questa cosa era accettata senza troppi fronzoli.

Paolo bitta
Paolo Bitta (640×360)

In quella tv, in quel’Italia, Paolo Bitta era possibile, così come lo erano lo Iacchetti di Medici Miei, il Fabio De Luigi di Love Bugs e tanti altri comici e attori che in quegli anni avevano invaso i palinsesti italiani; non si tratta di un semplicistico tentativo di idolatrare un personaggio che non andrebbe mai idolatrato, né tantomeno di un banale momento nostalgico, quanto più di una riflessione non scontata sulla differenza non solo nei fatti, ma anche nella costruzione e nella scrittura tra quei tempi e quelli di oggi, in cui tutto ciò è impossibile e inaccettabile, ma in cui troppo spesso ci si lamenta dei limiti comunicativi che di giorno in giorno continuano ad aumentare e creare non pochi problemi a piattaforme e reti (soprattutto le reti). Le stesse in cui negli anni di Camera Café bastava una camera fissa e un set spoglio per portare a casa il contenuto per anni. Vista da questo lato, si può tranquillamente dire che tra ieri e oggi ci siano differenze sia nei pro che nei contro. Ad ogni modo, la necessità di dar voce a Paolo Bitta è la stessa che lo ha mantenuto in vita nei ricordi degli spettatori quale simbolo di mediocrità, più che di machismo vero e proprio: un uomo che non conosceva il significato di fedeltà né tanto meno il passato remoto, che pensava che la vita perfetta fosse a bordo di un’Alfa Romeo tra il bar di fiducia e il night club di riferimento, in presenza di prostitute e compagni di avventure pluripregiudicati: potremmo continuare per parecchio tempo; davvero c’è qualcuno che pensa che Paolo Bitta sia mai stato un esempio per qualcuno? L’uomo chiamato contratto era semplicemente il soggetto sbagliato al momento giusto: ciò che serviva a un’Italia invasa dalla mediocrità portata dai reality e dai varietà più scorretti possibile, la stessa che oggi guarda a quegli anni con giudizio, ma anche con un fiacco accenno di nostalgia.