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Black Mirror si è davvero arreso al lieto fine?

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla quarta stagione di Black Mirror

Stiamo vivendo nell’era del totalitarismo della tecnologia. Lo sappiamo bene ed è piuttosto banale ribadirlo ma, essendo parte in causa, è indispensabile individuare una voce fuori dal coro che ci porti fuori dal tunnel. La virtualità di un futuro senza speranza è lo strumento ideale per regalarci un presente speranzoso, in qualche modo sostenibile, e Black Mirror persegue l’obiettivo da anni con risultati straordinari. Il nichilismo moralizzatore e, spesso, fustigatore del suo autore, Charlie Brooker, ha fatto a pezzi molte delle nostre certezze, riducendole in piccole, pericolose, schegge di vetro.

Tuttavia, il bianco e il nero, contrapposti in una polarizzazione senza compromessi tra i vizi e le virtù dell’uomo, canalizzati in un progresso tecnologico sempre più ingestibile, hanno lasciato spazio col tempo alle sfumature. Una sovrapposizione di prospettive ha trasformato le sentenze in punti di vista, attraverso una maggiore apertura dei finali. Quindi verrebbe da pensare che, come molti sostengono, Black Mirror si sia davvero arreso all’happy ending, tabù della serie almeno fino a San Junipero (e anche in questo caso ci sarebbe da discutere), ma la realtà è un’altra. E la quarta stagione l’ha confermato.

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Pensateci un attimo: il finale che si auspica mentre ci si addentra in una storia è sempre lieto? E, soprattutto, i sei episodi del nuovo ciclo di Black Mirror hanno fatto coincidere le nostre speranze con la realtà della storia? Certe volte sì, altre no, ma una cosa è certa: l’unico sul quale ci si può esprimere senza possibilità d’essere smentiti è Metalhead (approfondiremo la questione nei prossimi giorni). Tutto il resto è una questione di interpretazioni e punti di vista. Allora facciamoci qualche domanda. Per esempio: USS Callister finisce “bene”? Chi è la vittima? Chi il carnefice?

Dobbiamo esultare per la mesta fine di un uomo in carne e ossa incapace di inserirsi all’interno della società, in nome della liberazione (oltretutto effimera) di un gruppo di entità virtuali? Oppure piangere per la scomparsa di una persona frustrata che non aveva altro nella vita al di fuori di un videogame perverso? D’altronde, chi tra noi non aveva fatto il tifo per Robert Daly fino alla triste rivelazione? Allo stesso tempo, la libertà di chi non può trovare la morte è vera libertà? Quante speranze ci lascia il delirio finale del gamer interpretato da Aaron Paul? L’unica verità è che ci sono tante verità.

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Lo stesso si può dire di Arkangel e Crocodile. Se è vero che in entrambi i casi i protagonisti/villain abbiano subito un inevitabile contrappasso, è altrettanto lecito fare delle valutazioni che mettano da parte il bianco e il nero e trovino una sintesi nell’ambiguità del grigio. Perché è vero, la povera Sara è una donna libera, ma a quale prezzo? Ha perso una madre che le ha sottratto l’infanzia e parte dell’adolescenza, si ritrova allo sbando senza alcuna certezza e il nuovo viaggio che si appresta ad affrontare ha tutti i presupposti per diventare una discesa agli inferi.

E noi, in fondo, chi siamo per sorridere nel vedere una madre fatta a pezzi da una figlia? Lo sviluppo di Arkangel ci ha portato a farlo ed è naturale l’immedesimazione in Sara, ma vorremmo vedere far la stessa fine alla folta schiera di mamme pancine che popola i social? In sostanza, è un lieto fine? Se la risposta fosse un sì incondizionato, potremmo allora metter da parte quattro vittime innocenti (incluso un bambino) alle quali non dedicare un minuto di silenzio: se il mostro finisce in gabbia, ci ritroviamo di fronte ad un finale da favola?

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I dubbi e, di conseguenza, le domande, aumentano. Fino a mettere in discussione persino Hang the DJ, l’episodio della quarta stagione di Black Mirror che ci ha fatto sorridere maggiormente. E il motivo è semplice: siamo stati gli spettatori di una bella storia d’amore? Affatto. Non abbiamo fatto altro che assistere al processo asettico di un algoritmo. E non conosceremo mai il finale di questo racconto: la compatibilità non è l’unico presupposto per la nascita di un grande amore. Quando poi viene determinata da un calcolo matematico, arrendetevi e mettete da parte l’imprevedibilità del romanticismo.

Senza una sentenza, non abbiamo più riferimenti e diventiamo schiavi dell’incertezza, appesantiti da un ulteriore bagaglio di dubbi e paranoie, reso ancor più corposo dall’apertura dei finali che di lieto hanno ben poco.

Come quello di Black Museum: quanto è distante il sadismo del folle Rolo da quello della vendicativa Nish? E mettiamoci in gioco in prima persona: se godiamo nel veder soffrire in eterno il villain di turno, non diventiamo noi stessi i sadici deviati contro i quali abbiamo puntato il dito? Il monito di Black Mirror, catastrofista sul futuro per salvaguardare il presente, cerca una catarsi in noi, ancor prima che nei suoi protagonisti. Non è un biglietto d’uscita dal totalitarismo tecnologico, ma un input che dovrebbe risvegliare le coscienze senza aver bisogno di condanne o assoluzioni. Fino a trovare un happy ending, l’unico che conta davvero. Il nostro. Più lontano che mai.

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