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7 sitcom che ho amato tantissimo nonostante non mi abbiano fatto ridere per niente

Far ridere è difficile, lo sanno benissimo tutti quelli che fanno della comicità un lavoro. Se una sitcom non fa ridere, però, non necessariamente c’è un problema. Dipende dall’umorismo del telespettatore, è un fattore soggettivo. Non è il caso di strapparsi i capelli.
Nella mia modesta carriera di guardatore di serie televisive ho riso e pianto, un po’ come tutti. Poi ho anche imparato delle cose, e devo dire che sono quelle che mi hanno segnato di più. Ci sono state serie, per lo più sitcom (e questa è una cosa abbastanza strana, direi) che mi hanno dato la possibilità di confrontarmi con pensieri e idee totalmente differenti dalle mie permettendomi di imparare qualcosa di nuovo sul mondo e su me stesso.
Tra le tante sitcom che ho visto ce ne sono diverse che ho apprezzato molto e non per la loro comicità. Le ho amate proprio perché mi hanno obbligato a pensare differentemente. Dalla prima Willy, il principe di Bel Air all’ultima Black-ish, ecco un elenco di sette serie che ho amato moltissimo nonostante non mi abbiano fatto ridere per niente.

Willy, il principe di Bel Air

Ehi! Questa è la maxi storia di come la mia vita è cambiata, capovolta sotto sopra sia finita. Seduto su due piedi qui con te ti parlerò di Willy, super fico di Bel Air“. C’è chi l’ha letto cantando e chi mente, senz’ombra di dubbio.
Willy, il principe di Bel Air trasuda anni Novanta da tutti i pori. Dai vestiti alle acconciature, dalle musiche ai pregiudizi. Creata da Andy e Susan Borowitz e sviluppata da Benny Medina insieme a Jeff Pollack, è considerata la sitcom che ha lanciato Will Smith nell’Olimpo della televisione, prima, e del cinema, poi.
La storia è abbastanza conosciuta. Willy è un ragazzo qualsiasi di Philadelphia, poco incline allo studio, che viene spedito da sua madre a vivere dagli zii, dall’altra parte degli Stati Uniti, a Bel Air.
Il suo stile e il modo di affrontare la vita è in netto contrasto con quello degli zii e dei cugini che inizialmente cercano di trasformarlo in una sorta di piccolo lord, senza però riuscirci e, anzi, venendone travolti.

Willy, il principe di Bel Air non mi ha mai fatto ridere ma, al contrario, molto riflettere. Negli anni Novanta è stata la prima sitcom con protagonisti afroamericani che affrontava apertamente argomenti piuttosto controversi e delicati per l’epoca come, appunto, quelli dei pregiudizi o la differenza di classe. Inoltre, a differenza di altre sitcom familiari, le dinamiche interne tra i personaggi, così come le morali di ciascun episodio non risultavano mai stucchevoli o sdolcinate.

La Tata

Andata in onda in Italia per la prima volta su Canale 5 e poi su Italia 1 per un totale di 146 episodi distribuiti su sei stagioni La Tata ha vinto un Emmy e ha ricevuto dodici nomination per altrettanti prestigiosi premi televisivi. L’interprete principale, Fran Descher, è anche l’ideatrice e sceneggiatrice insieme all’allora marito, Peter Marc Jacbosen.
La trama de La Tata è abbastanza banale: Francesca Cacace, originaria di Frosinone, licenziata e mollata dal suo datore di lavoro nonché fidanzato, viene assunta come tata dal ricco produttore di Brodway, Maxwell Sheffield, padre di tre figli e vedovo. L’arrivo di Francesca come tata all’interno della famiglia Sheffield sarà un cambiamento epocale per tutti.

La Tata andata in onda in Italia è un adattamento della versione americana, oramai lo sanno anche i muri. All’epoca, invece, non essendoci internet, le notizie in merito erano poche e difficilmente reperibili. Io, attirato da questa trentenne sempre vestita come se dovesse sfilare, con un trucco vistoso e quei capelli cotonati, praticamente non mi sono perso una puntata, affascinato dal suo modo di fare e dalla sua stramba famiglia. Mai una risata però, seppure le puntate fossero farcite di situazioni decisamente comiche.
Poi un giorno, quando ormai i gemelli erano nati e le puntate finite, scoprii che Francesca non si chiamava così, che non era di Frosinone e che i suoi parenti non erano italo-americani. Ho dovuto riguardarla sotto un’altra ottica scoprendo, pur continuando a non ridere, un nuovo, incredibile umorismo.

Will & Grace

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Di questa fantastica serie ho visto solo le prime otto stagioni, quelle andate in onda, in Italia, tra il 2001 e il 2006. Quelle premiate con diciassette Emmy, senza contare le quasi oltre trecento nomination.
La storia racconta le vicende di Will, giovane avvocato newyorkese gay, e la sua coinquilina Grace, giovane interior designer, etero ed ebrea non praticante. I due, come spesso accade nelle sitcom, hanno avventure e disavventure che li fanno crescere apportando modifiche sostanziali al carattere dei personaggi.

Will & Grace è sicuramente una tra le prime sitcom che ha come protagonista un personaggio dichiaratamente gay. Questo mi ha permesso di intraprendere un percorso di consapevolezza su un argomento al quale, fino a quel momento, non avevo dedicato la giusta attenzione. Pur mostrando dei cliché sull’omosessualità piuttosto evidenti che hanno attirato sulla serie critiche anche piuttosto forti, Will & Grace ha avuto il pregio di sfondare un tabù che fino ad allora era stato relegato, soprattutto in Italia, a personaggi chiaramente macchiettistici nella stragrande maggioranza dei casi. Fatti per far ridere quando, in realtà, non c’era proprio niente da ridere.

Sex & the City

Le (dis)avventure di Carrie rientrano in quelle sitcom che hanno fatto la storia della televisione americana, a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, un periodo definito dai critici come la Golden Age of Television.
Sei stagioni, 94 episodi. Sette Emmy e oltre un centinaio di candidature hanno fatto di Sex & the City una delle serie più iconiche e famose al mondo, diventata popolare per la franchezza con la quale affrontava temi, all’epoca, ancora scottanti come il sesso, soprattutto perché analizzato dal punto di vista femminile. Al tempo stesso la sitcom ha avuto pesanti critiche perché le protagoniste vennero etichettate come troppo egocentriche e superficiali.

Sex & the City non fa molto ridere. Le (dis)avventure delle quattro newyorkesi sono piuttosto drammatiche, a dirla tutta, e, per certi versi, mi hanno sempre ricordato un po’ certe commedie di Woody Allen, con tutte quelle nevrotiche difficoltà, tra mille alti e bassi. In realtà, anche Sex & the City ha avuto la capacità di farmi riflettere soprattutto sull’idea della donna e sulla sua emancipazione non soltanto al punto di vista sessuale. Perché alla fine dietro una certa frivolezza c’è un pensiero sicuramente più profondo e anticonformista.

My name is Earl

Uno dei torti più grandi che si possano fare agli amanti delle serie televisive è cancellarne una senza darle la possibilità di un finale degno. Così è successo a My name is Earl che, dall’oggi al domani, ha chiuso i battenti senza, apparentemente, alcun valido motivo. Chi l’ha seguita è rimasto a bocca aperta quando ha ricevuto la triste notizia che non ci sarebbe stata una quinta stagione. Soprattutto con il finale della quarta, pieno di pathos, che ha lasciato con un sacco di interrogativi irrisolti.
My name is Earl è andata in onda tra il 2005 e il 2009 e il pilot ha vinto ben 4 Emmy. La storia racconta le vicende di Earl, un piccolo delinquente da strapazzo che, con un colpo di fortuna micidiale, vince centomila dollari alla lotteria. Perde il biglietto vincente e finisce sotto un’auto. E mentre è in ospedale, scopre cosa sia il Karma rendendosi conto che se la sua vita fa schifo non è altro che colpa sua e che solo e soltanto lui può rimediare alla sua infelicità facendo del bene agli altri.

Una serie piena di significati il cui umorismo, pur divertendomi, non mi ha strappato mezza risata ma che ho guardando con gran piacere riuscendo a coglierne un insegnamento non da poco. Al di là della poco ragguardevole idea di esser migliore del protagonista, cosa veramente da niente, My name is Earl ha saputo instillare l’idea che la felicità, di fondo, non è cosa così complessa né tanto meno irraggiungibile e che molta di essa derivi esclusivamente dall’idea, probabilmente errata, che dipenda da qualcosa di esterno, e passivo, e non da qualcosa di interno, e attivo.

Mom

Andata in onda tra il 2013 e il 2021 Mom è una di quelle sitcom che scopri per caso, ne guardi un paio di puntate e poi corri a recuperare quelle che ti sei perso per strada facendo binge watching. E tra una breve pausa e l’altra, il tempo di ricaricare la pagina, scopri che è di Chuck Lorre, quello di The Big Bang Theory ma non solo. E ti spieghi tante cose.
Mom però non è soltanto di Chuck Lorre. Nel senso che non è tutta lì, nel nome del suo ideatore. Mom è una sitcom con un cast grandioso, a cominciare da Allison Janney, passando per Anna Farris e finendo con William Fichtner.
Due Emmy (meritatissimi, alla Janney) e un sacco di bellissime recensioni da parte di critica e pubblico, Mom ha saputo affrontare temi magari non più tanto nuovi come l’alcolismo o la tossicodipendenza ma in maniera da lasciare il segno dentro al telespettatore.

Scoprire Mom è stata una sorta di epifania. Vuoi per la Janney e per Fichtner, vuoi perché sa portati a spasso nella disfunzionalità umana più spaventosa affrontando argomenti che nella vita andrebbero sopportati un po’ alla volta e non tutti insieme. Mom farebbe ridere, forse, se non fosse così terribilmente vera, reale. Ha una concretezza che, in certi momenti, fa davvero venire la pelle d’oca.

Black-ish

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Black-ish non è solo una sitcom. Black-ish è una black sitcom. Le black sitcom esistono dagli anni Settanta. La prima che ricordi era Sanford & Son e poi I Jefferson. Entrambe, a modo loro, raccontavano la vita degli afroamericani in maniera più o meno edulcorata, nel senso che le problematiche venivano parzialmente sfiorate se non addirittura ignorate. Negli anni Ottanta andavano di moda I Robinson ma era comunque una sitcom per un pubblico afroamericano. Poi c’è stato Willy, le cose hanno iniziato a cambiare e le black sitcom, pur in minima parte, hanno cominciato a raggiungere un pubblico più vasto, non più soltanto etnicamente legato ai protagonisti.
Oggi, con Black-ish, le cose sono profondamente cambiate. Pur continuando a essere programmi di nicchia il pubblico che guarda le black sitcom è un pubblico eterogeneo che apprezza il prodotto per quello che è e non per il colore della pelle dei suoi protagonisti.

Black-ish è la logica evoluzione di Willy, il principe di Bel Air perché i tempi sono cambiati e gli argomenti da affrontare in uno show televisivo sono diventanti quelli della vita comune, senza più tabù. Per questo Black-ish più che ridere fa pensare. Soprattutto per chi ha una certa età e ha potuto farsi una cultura della televisione americana e della sua evoluzione.
I temi di Black-ish, la cui ultima stagione è stata presentata il 4 gennaio 2022, sono quelli più recenti e più drammatici e variano dal razzismo per il colore della pelle diverso al razzismo tra le classi sociali, dalla brutalità della polizia al movimento Black Lives Matter cercando sempre di portare lo spettatore a riflettere senza mai a compatire o provare pena.

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