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Behind The Series – L’estetica della morte in Hannibal

Behind The Series è la rubrica di Hall of Series in cui vi raccontiamo tutto quel che c’è dietro le nostre serie tv preferite, sul piano tecnico, registico, intimistico, talvolta filosofico. Oggi è il turno di Hannibal.

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Fin dai suoi primissimi fotogrammi, Hannibal ci trascina in un universo in cui la morte domina incontrastata. “Questo è il mio disegno“: la frase che Will Graham – profiler che l’FBI sfrutta di nascosto (non è un vero agente per i motivi che vedremo in seguito) per la sua innata capacità di calarsi nella mente dei killer e ricostruire gli omicidi – pronuncia come un mantra calandosi in una sorta di meditazione che gli apre gli occhi al mondo visto dagli assassini, quella frase è l’inizio di un viaggio meticolosamente studiato, che fa dell’estetica la sua ragion d’essere.

Il connubio psicologico, sentimentale, criminale e a un passo dall’essere carnale di Will Graham con Hannibal Lecter è scandito da elaborate scene del crimine, musica dissonante, atmosfere oniriche, sottili giochi di potere e scelte registiche che confezionano una serie in cui l’apparenza è il veicolo principale di un messaggio di morte, sì, ma di una bellezza straziante. Attraverso l’analisi di alcune scelte registiche, drammaturgiche e artistiche fatte dalla serie andremo ad analizzare l’estetica della morte di Hannibal, una serie che ha scelto di collocarsi nella categoria del cult e di non cedere alle lusinghe con cui si accompagna il bisogno di piacere a tutti.

Il fardello dell’empatia

Will Graham

“Come facciamo a vedere? Come facciamo a sapere da uno sguardo che davanti a noi ci sta un libro o un gatto? Sembrerebbe naturale pensare che i recettori rilevano la luce che arriva sulla retina dei nostri occhi e la trasformano in segnali che corrono verso l’interno del nostro cervello, dove gruppi di neuroni elaborano l’informazione in modo via via più complesso, fino a interpretarla e a identificare gli oggetti. […]

E invece no. Il cervello non funziona così. Funziona al contrario. La maggior parte dei segnali non viaggia dagli occhi verso il cervello: viaggia in senso opposto, dal cervello verso gli occhi. Quello che succede è che il cervello si aspetta di vedere qualcosa sulla base di quanto è successo prima e quanto sa”.

Carlo Rovelli, Helgoland.

Will Graham ha un dono: può assumere il punto di vista delle altre persone. Un fardello, più che altro: la stimolazione costante dei suoi occhi da parte del suo cervello, condizionato dal sentire altrui, lo porta a potersi sentire come si sentono gli altri: dall’ingenuo studente al serial killer. Proprio questo suo dono lo ha portato a non poter intraprendere la carriera di agente FBI: troppo empatico, troppo emotivamente disturbato per poter rivestire quel ruolo. L’FBI però sfrutta il suo dono per risolvere casi che, altrimenti, non troverebbero una risoluzione: ed è così che conosciamo Will Graham, fragile come un giunco e tenace come una quercia, capace di accogliere le peggiori perversioni nella sua mente, mantenendo sempre uno spazio libero per se stesso.

Will pronuncia quella frase, “Questo è il mio disegno”, e il mondo esterno si scompone: il cervello inizia a mandare impulsi ai suoi occhi che ricostruiscono la realtà così come l’ha vista e modificata l’assassino. In quella realtà è lui il deus ex machina: suo il verbo, sua la potenza. Will si muove all’interno delle scene del crimine che, dopo essersi smaterializzate dallo stato reale (qualunque cosa significhi), vengono ricostruite seguendo le precise indicazioni che la coscienza del killer, che prende possesso della sua mente, detta al suo cervello.

La prima puntata, Apéritif, ci catapulta crudelmente sulla scena di un crimine: un filtro verdastro e una musica dissonante, che si fonde con il cicaleccio della polizia, ci introduce senza alcuno sconto dentro il primo “quadro” dell’estetica della morte di Hannibal. Will Graham per vedere chiude gli occhi, e questo è indicativo: non sono gli occhi che gli servono, è il cervello che deve essere preparato a inviare impulsi elettrici alle sue appendici, per consentirgli di ricostruire l’accaduto.

Ogni orpello del reale viene dissipato attraverso l’oscillare di un pendolo di luce, che consente a Will di sciacquare la realtà e impersonare, anzi diventare lui stesso, l’agente dell’omicidio. “Questo è il mio disegno“: l’affermazione dell’artista che firma orgogliosamente la sua opera, orchestrando una messa in scena mortale che assumerà, nel corso delle puntate di Hannibal, dimensioni sempre più barocche e significati ancor più sinistri.

Cosa comporta, un dono così incommensurabile come l’empatia? Will Graham incontrerà nel suo percorso lo psichiatra cannibale e psicopatico Hannibal Lecter: l’incarnazione per definizione della mancanza di empatia. Non solo nel suo ruolo di serial killer, ma anche nella sua professione di psichiatra: prima di tutto un medico, addestrato a reprimere le emozioni per trattare in maniera chirurgica le emozioni altrui.

La strana amicizia tra i due, alternativamente paziente e dottore, padrone e schiavo, esperimento e cavia l’uno dell’altro, porterà la mente di Will a non riuscire più a distinguere i suoi momenti di trance omicida dal reale. Una strana oscurità, popolata da fantasie di morte, nella quale risuona in lontananza un clavicembalo, comincerà a insinuarsi nella sua mente e a spegnere la luce di Will Graham, empatico puro, che accoglie ogni genere di anima nella sua vita: con una particolare predilezione per quelle pure e innocenti dei suoi cani. Che, contrariamente agli esseri umani, non premono per inserirsi a forza nella sua mente.

L’arte è morte: la morte è arte.

Hannibal

La tesi principale di Hannibal è che niente può essere più artistico della morte. Si potrebbe dire che la vita abbia come unico scopo la morte, a cui arriviamo preparati da decine di anni di tentativi. E quando arriva il momento, fare della morte un atto puramente artistico è la vocazione suprema dell’essere umano. Per questo le scene del crimine in Hannibal sono sempre così elaborate, ognuna così sfacciatamente creativa man mano che la serie prosegue da far impallidire la precedente.

Alcune di queste restano indelebilmente impresse nella memoria: come ad esempio il violoncello umano della puntata Fromage. Una puntata particolarmente importante perché fonde in sé numerosi elementi che compongono l’estetica di Hannibal: l’arte, la morte e una fortissima tensione erotica che permea e unisce in un perverso abbraccio questi due aspetti.

L’intenzione dell’omicida è creare lo strumento perfetto: non a caso lo scopo viene perseguito fondendo il corpo e in particolare la voce umana con lo strumento che più le assomiglia, il violoncello. Collocare l’opera in pieno palcoscenico ritualizza l’atto dell’uccidere: in Hannibal tutti gli omicidi sono rituali, e tra tutti i rituali quello del teatro è il prediletto. Il teatro è il ponte tra la dimensione umana e quella divina: è un richiamo ancestrale a cui l’uomo non può sottrarsi, nemmeno quello più illetterato.

Persino gli assassini apparentemente meno raffinati, in Hannibal, ritualizzano i loro omicidi in chiave teatrale o religiosa: come se ci fosse poi questa grande differenza. L’attore, sul palcoscenico, ripete un copione proprio come il prete, sull’altare della chiesa, dice la sua messa sempre uguale. Il bisogno di riconnettersi al divino spesso sfocia nell’ardire di sostituirsi a Dio: ed è infatti in Hannibal che troviamo una frase che inchioda proprio Dio, l’assassino supremo, alle sue responsabilità:

“Anche a Dio deve piacere uccidere. Lo fa in continuazione. E noi non siamo fatti a sua immagine?”.

Nell’affresco sanguinolento, decadente e insieme di accecante bellezza che è Hannibal, uno degli elementi che non può mai mancare è la musica. La colonna sonora originale è firmata da Brian Reitzell, che mescola musica classica e contemporanea riuscendo a creare un tappeto sonoro estremamente disturbante che ci accompagna, spesso a un passo dalla soglia di sopportazione, attraverso tutta la serie. Proprio nella puntata Fromage abbiamo un primo esempio della risonanza, è il caso di dirlo, che la musica ha all’interno del mondo di Hannibal Lecter.

La scena della lotta tra Tobias e Hannibal nello studio di quest’ultimo si conclude con lo psichiatra che, dopo aver ucciso il suo rivale ed emule, si concede di assaporare la vittoria ascoltando il brano che già dal film Il silenzio degli innocenti avevamo imparato ad associare al suo personaggio: l’Aria da capo, tratta dalle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach.

La fortissima tensione per la scena di lotta tra i personaggi e la strisciante eccitazione erotica che proprio lo scontro tra di loro suscita nello spettatore viene lenita da queste note celestiali, che ci riconnettono a una dimensione paradisiaca, tanto più agognata quanto più, fino a un momento prima, credevamo di essere sprofondati all’inferno.

Eros e Thanatos, pulsione di morte e di vita: poli attrattivi che si corteggiano e si respingono per tutta la durata della serie. La tensione erotica che noi percepiamo tra i due personaggi principali proviene dallo stesso impulso elettrico che vede, prima nel cervello e poi attraverso gli occhi, la magnificenza e l’orrore della morte. Lo spettatore viene sedotto e terrorizzato allo stesso tempo: l’effetto collaterale di Hannibal è proprio questo, renderci tutti un po’ Will Graham, capaci di sentire gli altri a un livello così profondo da essere tentati di fare un passo nel buio dell’abisso.

Potrebbe causare psicopatia“: questo dovrebbe comparire all’inizio di ogni puntata di Hannibal.

I Soprano - Hannibal Lecter

Uno dei motivi che innescano la seduzione nello spettatore è senza dubbio l’interpretazione di Mads Mikkelsen. Lontano anni luce dal cinico e scostante psicopatico portato fino all’Oscar dall’inarrivabile Anthony Hopkins: Mads Mikkelsen lo sa, che il confronto sarebbe implacabile. E, senza timore reverenziale, riesce a dare una lettura del personaggio di Hannibal Lecter che non solo non ci fa rimpiangere Il silenzio degli innocenti, ma riesce a creare una persona, prima di un personaggio, capace di insinuarsi nei nostro cuori non più in alto né più in basso di quella del film: ma esattamente al suo fianco.

Il fascino del personaggio di Hannibal Lecter che conosciamo nella serie è dato, in gran parte, dal carisma raffinato e dandy che gli conferisce Mads Mikkelsen. L’attore danese sceglie di non strafare, di non mostrare un killer in preda alla sete di sangue: il suo Hannibal è un prima di tutto esteta, un filosofo che ammanta i suoi crimini di un’atmosfera sacrale e allo stesso tempo estremamente pragmatica.

La sua fisicità imponente e il suo magnetismo innato conferiscono un fascino perverso e irresistibile al personaggio. Veniamo sedotti da Hannibal, cucinati nel suo brodo come uno degli organi che asporta alle sue vittime e serve ai suoi ospiti: tratteniamo il respiro quando lo vediamo in pericolo e, anche quando lo vediamo commettere le peggiori nefandezze, proviamo in segreto una vergognosa eccitazione.

Nell’episodio Kaiseki, il primo della seconda stagione, viene messo in scena un altro combattimento, questa volta tra Hannibal e Jack Crawford, che si presenta a casa dello psichiatra per affrontarlo, dopo aver scoperto che c’è lui dietro la lunga scia di omicidi. Uno scontro che è quasi una danza, una lotta ritualizzata dalla regia fin da prima che venga sferrato il primo fendente.

L’andamento al rallenty, che scandisce e allunga la tensione, prepara i contendenti alla sfida. I movimenti lenti e precisi dei due sfidanti preannunciano una lotta calcolata e descrivono il cambiamento di equilibri tra i personaggi meglio di mille dialoghi. Dal momento in cui la tensione sfocia nel primo assalto, il caos del combattimento viene ordinato da movimenti chirurgici e consapevoli. L’infrangersi della logica della mente contro la spontaneità della carne, l’arte e la filosofia contro l’estetica brutale di muscoli che si tendono e offendono altri muscoli, tutto questo genera qualcosa di indefinibile nello spettatore.

Non è eccitazione, non è ammirazione, non è nemmeno orrore e neanche adorazione: sono tutte queste cose insieme, unite a creare qualcosa che non ha nome. Hannibal è arrivata vicinissima a cogliere il senso dell’unione tra vita e morte, eros e thanatos: ma, come quei concetti che si affacciano alla nostra mente e vengono subito dopo dimenticati, ci lascia solo una sensazione che non sappiamo classificare. Che ci attrae e ci respinge allo stesso tempo, come un abbraccio mortale.

What a wicked game you play, to make me feel this way

Proprio con un abbraccio mortale si conclude Hannibal: dopo una terza stagione cominciata sottotono e il giro di boa della seconda parte, arriviamo a un finale sontuoso e tragico, considerato un piccolo cult della serialità.

Hannibal e Will hanno sviluppato un’unione che solo la morte può spezzare: insieme sconfiggono l’ultimo mostro, che non è Red Dragon, ma la morte stessa. Guardare l’uno nella mente dell’altro ha portato Will a un passo dalla follia e Hannibal a riaccendere nel suo buio accecante un barlume di umanità. Questo scambio, che avviene con fendenti emotivi che lacerano le strutture mentali di entrambi, finisce in un ultimo abbraccio e un volo da una scogliera.

La sublimazione dell’unione estetica, filosofica e morale di amore e morte: un amore che non ha mai avuto bisogno di altro, per esprimersi, che non fosse il piano onirico e mentale. Per questo Hannibal e Will non sono veri amanti, né veri amici e nemmeno nemici. Il loro rapporto esiste in un angolo nascosto delle loro menti, una zona grigia in cui non esiste il bene e il male e in cui, specchiandosi, non si riconoscono.

Se nel corso della serie abbiamo avuto più volte la sensazione che Will e Hannibal fossero l’uno lo specchio dell’altro, al punto che la responsabilità degli omicidi ormai si rimpallava tra l’uno e l’altro senza arrivare a una soluzione, sul finale i due riescono finalmente a incontrarsi in una dimensione in cui possono restare uniti per sempre. Il processo seduttivo di Hannibal nei confronti di Will culmina in qualcosa che racchiude in sé eros e thanatos: un’eiaculazione di morte, per così dire.

Anche in quest’ultima scena il simbolismo e l’estetica la fanno da padroni: l’atmosfera, complice il ferimento di Will, scivola in quella dimensione onirica alla David Lynch a cui Hannibal ci ha abituato nel corso delle tre stagioni. Red Dragon si trasforma in una figura onnipotente e demoniaca, contro la quale i due lottano in un’ultima resa dei conti, ormai alienati dal resto del mondo. Anche la scelta del luogo per questo ultimo confronto è simbolica: la casa in cui Hannibal aveva nascosto Abigail Hobbs, la loro “figlia” infernale e angelica, una tana affacciata sull’orlo di un precipizio.

Hannibal e Will possono finalmente unirsi carnalmente, in maniera simbolica, attraverso l’uccisione di Red Dragon. La sublimazione dei loro istinti avviene in maniera sacrale e insieme erotica, così come è sempre stato il loro rapporto. E i due, finalmente abbracciati, possono gustare la promessa dell’eternità:

“Questo è ciò che avevo sempre voluto per te, Will… per entrambi noi”.

Le note tenebrose e romantiche di Love Crime di Siouxsie Sioux cullano i due verso il loro destino. Che sia di morte, non è detto: la finestra per una quarta stagione di Hannibal, come sempre detto dal creatore Bryan Fuller, è sempre aperta.

E proprio in coda alla serie, non può mancare l’ultimo “quadro”, con cui Hannibal si congeda dai suoi spettatori. Una tavola imbandita, sulla quale troneggia, come portata principale, la gamba della dottoressa Bedelia Du Maurier: un segno che i due sono sopravvissuti e hanno cominciato a “creare” insieme, o che la follia ha portato la donna a sviluppare un istinto all’auto mutilazione?

Chissà se Hannibal risponderà mai alle nostre domande: noi resteremo sempre grati a questa serie per averci spinto in territori inesplorati e indicibili della mente umana.

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