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L’allegoria di Yellowjackets: è la mente ad avere fame, non il corpo

Le ragazze pronte per andare via in Yellowjackets 3x08

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A cosa vi fa pensare un affascinante e disturbante oggetto narrativo che sfida le convenzioni del survival drama per affondare le radici in una dimensione più simbolica? Beh, facciamo indubbiamente riferimento a Yellowjackets, perla di Paramount+ che, dietro la patina di una storia di sopravvivenza adolescenziale, cela un’indagine feroce sul disagio della psiche umana e sulla fame che non è solo fisica, ma soprattutto emotiva, identitaria e psicologica. Nel racconto della serie, il crollo del mondo civilizzato è il pretesto narrativo che mette a nudo le fragilità più profonde. Il corpo chiede cibo, acqua, riparo. Ma è la mente a rivelarsi il vero campo di battaglia. Le protagoniste, lontane da ogni struttura sociale, sono costrette a confrontarsi con i propri traumi, le proprie insicurezze e un senso crescente di alienazione.

Lungi dal dipingere la fame come un semplice bisogno fisiologico, Yellowjackets la trasfigura in un simbolo più ampio: la fame di appartenenza, di controllo. In un contesto in cui le regole della società si sgretolano, emerge una verità più cruda. Di fatto, è la psiche a vacillare, la fame diventa fame di potere, di significato, di rassicurazione in un mondo ormai privo di coordinate. La vera lotta delle protagoniste non è solo contro gli elementi naturali, ma contro il collasso interno. La natura selvaggia diventa lo specchio della mente umana, fortemente imprevedibile, spietata, ostile.

Una scena di Yellowjackets

Le ragazze non sono soltanto vittime delle circostanze

Le protagoniste, per l’appunto, sono anche portatrici di una sofferenza psicologica (ecco alcune serie tv psicologiche) preesistente che il disastro amplifica. Gli episodi della serie mostrano chiaramente come il trauma preesista al disastro. I segreti, le ansie, i rapporti tossici e le insicurezze, infatti, erano già presenti nella vita ordinaria delle protagoniste. Ma l’incidente aereo e l’isolamento nella natura selvaggia non fanno che portare questi elementi alla superficie, rendendo la sopravvivenza un’esperienza eminentemente psicologica. In Yellowjackets, allora, sopravvivere significa non solo nutrire il corpo, ma gestire il panico, la colpa, il senso di abbandono. La fame reale si mescola a quella simbolica, in un crescendo di tensione che confonde il bisogno biologico con il vuoto interiore.

Uno degli snodi centrali della narrazione è il raggiungimento di quel liminale “punto di non ritorno”, in cui la percezione stessa dell’umanità si dissolve. Quando ogni legame con il passato è reciso, quando le regole morali si frantumano sotto il peso della necessità e della disperazione, emerge un inaspettato senso di riscatto. Ma non si tratta di un riscatto edificante, bensì della liberazione selvaggia che nasce dall’annullamento delle convenzioni. L’istinto di sopravvivenza si fonde con la rabbia repressa, con il desiderio di emanciparsi dalle aspettative sociali, dai ruoli imposti, dalle narrative identitarie preconfezionate.

“Non avere più nulla da perdere” è la forma di potere di Yellowjackets

Le protagoniste scoprono di poter ridefinire le regole, di poter abbracciare una nuova identità svincolata dalle pressioni della società civilizzata. È un atto radicale, spesso violento, ma anche profondamente liberatorio. Non a caso, la fame del corpo è immediata e riconoscibile, mentre quella della mente è più subdola e si manifesta come ansia, smarrimento, dissociazione. Pertanto, i flashforward della serie, che mostrano le protagoniste adulte alle prese con i postumi del trauma, confermano questa lettura. Non si esce mai davvero dalla foresta, la mente rimane prigioniera di quell’abisso. La foresta dove le ragazze si ritrovano isolate non è solo un luogo geografico, ma uno spazio mentale, un “non-luogo” (qui un focus sui “non-luoghi” di From) in cui le strutture razionali si disgregano e l’inconscio prende il sopravvento.

È come se la natura esterna rispecchiasse il paesaggio interiore delle protagoniste. Così oscuro, misterioso, ostile, ma anche carico di possibilità di rinascita o distruzione. Qui le dinamiche sociali tra le ragazze, come la leadership, le esclusioni, le alleanze, si trasformano in rituali tribali, evocando un ritorno allo stato primordiale. Pertanto, lo stesso trauma è la fame che non si placa mai. Inoltre, il “mostro” che aleggia nella serie può essere letto in senso allegorico. Non si tratta, infatti, soltanto di un’entità esterna, ma rappresenta le paure, i traumi e gli aspetti oscuri della mente. La debolezza fisica che questo mostro incarna è metaforica, in quanto manifesta la fame di senso, la bramosia di colmare il dolore emotivo e che nasce dal caos interiore.

Due protagoniste della serie tv

In Yellowjackets i contorni tra realtà e immaginazione si fanno sfumati

Questi suggeriscono che il vero orrore non sia nella foresta, ma nella mente. E, tra le altre cose, lo stesso cannibalismo, presente nella serie come suggestione costante, è la massima espressione della fame portata all’estremo, ma anche una metafora psicologica. Le ragazze si “divorano” tra loro anche in senso figurato, in un sistema sociale fondato su invidie, rivalità e tradimenti. Mangiare il corpo dell’altro può essere interpretato come un tentativo disperato di appropriarsi della forza o dell’identità altrui, per colmare il proprio vuoto. Non a caso, questo atto indegno diventa il simbolo dell’incapacità di colmare il bisogno emotivo in altri modi, se non attraverso atti distruttivi o trasgressivi.

Per tale ragione, nelle scene più oscure e rituali della serie, le protagoniste indossano maschere e si trasformano simbolicamente in animali (ecco gli animali star delle serie). Questo rappresenta la perdita della razionalità, l’abbandono dell’identità sociale a favore di una dimensione istintuale. Quando tutto si sgretola, rimane solo l’istinto, il predatore, il bisogno di dominare o essere dominati. Indossare una maschera significa spesso nascondere il vero sé, ma anche cercare una nuova identità, un mezzo di rinascita.

Il tempo, quindi, diventa un ciclo che non si interrompe mai e Yellowjackets non è solo un racconto di sopravvivenza estrema. Ma una metafora vibrante e impattante sulla condizione psicologica contemporanea. In un mondo che impone performance, identità coerenti, controllo razionale, il collasso dei codici sociali diventa lo scenario in cui esplode l’ingordigia più autentica. Nello specifico, quella di senso, di comprensione, di riconciliazione con sé stessi. La serie ci ricorda che la vera sopravvivenza non si misura solo in forza fisica o giorni vissuti, ma nella capacità di affrontare il disordine dell’anima. E che, in fondo, è sempre la testa ad avere più bisogno di nutrienti vitali.

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