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La tempesta imperfetta di Winning Time, la serie giusta arrivata nel peggior momento possibile

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler – si fa per dire – su Winning Time

No, non l’abbiamo ancora superata. Non l’abbiamo accettata, anche se l’abbiamo capita. E ha pure senso, nonostante tutto. La cancellazione di Winning Time da parte della HBO, arrivata dopo due stagioni di ottima televisione e un finale che ha accresciuto non poco i rimpianti per quello che avremmo potuto vedere e (forse) non vedremo mai, continuerà a far discutere a lungo gli appassionati. Perché Winning Time è stata una serie vera, una vera produzione HBO degna di questo nome. Perché è inevitabile non pensare che l’arco narrativo incentrato sull’ascesa dei Lakers sia a dir poco incompleto. E perché la storia, quella reale, lo dice chiaramente: al di là delle numerose licenze concessesi da un adattamento più che creativo di una delle più grandi saghe sportive di tutti i tempi, è evidente che Winning Time dovesse ancora dare il meglio di sé.

È inevitabile, se si pensa a quello che è successo dopo il 1984 e la prima grande finale NBA tra i Lakers di Jerry Buss e i Celtics di Red Auerbach. Basta ripensare ai minuti conclusivi di Winning Time, “improvvisati” da un giorno all’altro per offrire agli spettatori una qualche parvenza di finale: dalla successione tra Buss e Buss figlia alle grandi sfide successive che hanno caratterizzato una delle rivalità sportive più accese di sempre, passando per le difficoltà di Magic Johnson e l’amicizia con Larry Bird, l’ascesa di Michael Jordan, la scoperta di Kobe Bryant, i trionfi mitologici di Pat Riley e tanto altro, Winning Time aveva tutti i presupposti per raccontare al meglio almeno quindici anni di grandissimo basket e non solo. Invece no, a quanto pare non andrà così: HBO ha staccato la spina sul più bello, lasciandoci con l’amara sensazione di esserci affezionati a un’incompiuta. Una serie bellissima, per pochi. Una tempesta imperfetta: la serie giusta, arrivata nel peggior momento possibile.

Winning Time
Winning Time (1200×675)

Cosa è andato storto? Perché Winning Time ha fatto la fine che ha fatto? La risposta breve è fin troppo semplice, seppure non scada nel semplicismo: costava troppo e rendeva troppo poco. Spieghiamola meglio: si è riproposta, in sostanza, la dinamica che la HBO era stata costretta ad affrontare un anno fa circa con un’altra grande serie tv: Westworld. È vero: Westworld, a differenza di Winning Time, aveva avuto molto più tempo per capitalizzare tutto il suo gigantesco potenziale, ma parliamo di casi in qualche modo associabili. Figli del nostro tempo, di una televisione che trasmigra nello streaming con risultati alterni e di un modello di business che sembra essere sempre più insostenibile per i principali player in gioco. Un modello in crisi che sta implodendo e che porterà la televisione di nuova generazione a doversi reinventare guardando al passato (ne avevamo parlato a lungo in un approfondimento di alcune settimane fa). Un modello in cui non c’è più spazio per una serie come Winning Time: una produzione mastodontica e ambiziosissima, apprezzata però da un pubblico troppo limitato per giustificare l’investimento di cifre da top. A tal proposito, è sufficiente mostrare un grafico che raccoglie i dati d’ascolto (fonte Nielsen) di alcune tra le principali produzioni HBO – Max Original, per essere precisi – degli ultimi anni, analizzati dal magazine statunitense The Ringer in un articolo dello scorso 18 settembre.

Agevoliamo le cose a chi non riuscirà legittimamente a leggere tutto: il dato di Winning Time è il terzo da sinistra, il secondo più basso dopo quello raccolto da un’altra produzione incentrata sul mondo dello sport, la docuserie Hard Knocks dedicata ai New York Jets. E non parliamo di differenze da poco: per intenderci, Winning Time ha raccolto nella settimana della premiere della seconda stagione “solo” 1.8 milioni di spettatori circa, molti meno di tutti le altre grandi serie con cui si raffronta in questo caso. Parliamo di dati parziali, visto che si tratta solo della prima settimana, ma nei mesi successivi non è andata meglio per niente. La cancellazione, a quel punto, è diventata inevitabile. Una cancellazione che era nell’aria da tempo, e che si riflette anche nel rilancio al ribasso con cui si era presentata nella seconda stagione: dai dieci episodi da un’ora circa che avevano composto il primo ciclo di puntate, infatti, si è passati ai sette del secondo, caratterizzati oltretutto da un minutaggio medio nettamente inferiore. Un rilancio al ribasso che ha influenzato in negativo l’andamento della stagione stessa: troppi eventi, personaggi e situazioni rispetto a quanto avrebbe giustificato lo screentime a disposizione. Una concentrazione eccessiva che ha contribuito al fallimento di una serie tv che era nata col preciso intento di dominare i palinsesti televisivi della nostra epoca, al pari delle produzioni che avevano fatto grande in passato la HBO.

Riproponiamo, allora, la domanda di prima: cosa è andato storto nel corso della sfortunata avventura di Winning Time? Procediamo per punti.

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  1. Non è andata oltre i confini del pubblico appassionato di sport.

L’evoluzione dello storytelling sportivo applicato alle serie tv è sotto gli occhi di tutti: dopo aver vissuto un lungo periodo di difficoltà, i successi di Ted Lasso, The Last Dance e di Welcome to Wrexham (solo per citare tra i casi più eclatanti) hanno ridefinito il rapporto tra lo sport e lo serie tv, portandolo in una nuova dimensione. Lo stesso ha fatto, con regole tutte sue, Winning Time, modello virtuoso di racconto creativo d’altissima qualità, con una differenza chiave rispetto alle altre produzioni menzionate: non è mai riuscita ad attirare un pubblico trasversale. Oseremmo dire, un pubblico generalista, seppure legato a una serialità più raffinata. Winning Time, invece, si è confinata all’interno di un target molto specifico, fortemente connesso al basket o comunque allo sport in generale. Troppo poco, per una serie che si è ancorata a uno zoccolo duro insufficiente per ottenere maggiore fiducia da parte della HBO.

2. Aveva bisogno di più stagioni per consolidare e ampliare il pubblico.

Quindi è un problema di formato? Nì. Se da un lato l’identità di Winning Time era ormai chiara e consolidata, persisteva comunque un potenziale presupposto finalizzato all’accrescimento di un pubblico più sfaccettato. Un presupposto che avrebbe avuto bisogno di tempo, pazienza e ulteriori investimenti, in linea con quelli delle prime due stagioni. Ma come è possibile farlo, in un quadro di transizione della HBO e del mondo della serialità in generale – specie se connessa ai modelli dello streaming – in cui l’obiettivo è ridurre i costi per massimizzare gli introiti, anche a costo di sacrificare le produzioni qualitativamente più rilevanti? No, non è più possibile farlo. Il tempo dei voli pindarici de I Soprano e di Game of Thrones è ormai finito, purtroppo. E pure quello di Westworld: quattro stagioni di speranze disattese ad altissimi costi, almeno sul piano dell’audience, sono ormai inconcepibili per chiunque. Persino per la HBO.

3. Lo sciopero degli sceneggiatori e la programmazione infelice.

L’annus horribilis delle serie tv, un 2023 caratterizzato anche dagli imponenti scioperi di sceneggiatori e attori, ha dato il colpo di grazia: la seconda stagione Winning Time è uscita nel pieno delle manifestazioni degli addetti ai lavori, rendendo impossibile promuoverla nel miglior modo possibile. Ed è andata in onda, inoltre, nei mesi estivi, inadatti per molti versi a una produzione come questa. Sarebbe andata diversamente se fosse uscita prima o dopo? Probabilmente no: come abbiamo già evidenziato, Winning Time aveva faticato parecchio anche nel corso della prima stagione. Diverso sarebbe stato il discorso se fosse uscita, per esempio, cinque anni prima: il terreno per una grande narrazione di stampo sportivo era già fertile, le programmazioni d’alta qualità per pochi avevano ancora un grande raggio d’azione sul lungo periodo e con ogni probabilità sarebbe arrivato un rinnovo (almeno) per una terza stagione. Dopo la terza, chissà: oggi, forse, parleremmo di un trionfo tardivo, dopo una prima fase condizionata da molteplici difficoltà. Ma no: questo, purtroppo, è un “losing time“.

Insomma, ormai è chiaro: quella di Winning Time è la storia di un grande rimpianto. E non solo per chi ama il basket e una certa serialità, sempre più destinata a dover desistere in nome dei bilanci da rispettare, ma anche per chi avrebbe avuto l’opportunità di immergersi in una storia per molti versi universale, utile per comprendere l’America degli anni Ottanta almeno quanto lo sarebbe l’analisi del Milan di Berlusconi per l’Italia della medesima fase storica. Ma un grande successo non è mai solo una questione di meriti: è anche – talvolta, soprattutto – una questione di fortuna. E Winning Time, di fortuna, ne ha avuto ben poca: figlia del suo tempo, è arrivata al momento sbagliato. Nonostante ciò, una piccola speranza rimane ancora accesa: un prodotto del calibro di Winning Time, infatti, potrebbe far gola a tantissimi network. Qualcuno potrebbe pensare concretamente di salvarla dalla cancellazione e darle una nuova occasione: ma chi potrebbe permettersela? Con ogni probabilità, nessuno. Servirebbe abbassare i costi, sacrificare qualcosa sul piano qualitativo per avere in cambio la sopravvivenza. Autori e produttori sembrerebbero esser disposti a farlo, e a quel punto una casa perfetta per Winning Time ci sarebbe: Showtime, quella che i più maligni hanno sempre considerato la “sorella minore” della HBO. Quale casa migliore? Lo Showtime dei Lakers su Showtime: dove dobbiamo firmare?

“If the universe wants more Lakers, the universe knows where to reach us. Se l’universo vuole più Lakers, l’universo sa dove raggiungerci”, diceva qualche tempo fa il produttore esecutivo di Winning Time Kevin Messick in un’intervista a Vulture. Ecco, non è l’unico ad augurarselo: questa storia, meravigliosamente sporca e imperfetta, non può concludersi con una sconfitta. E noi non vedremmo l’ora di rivivere un decennio che ha segnato la storia di uno sport straordinario. Vogliamo continuare a crederci per un po’, prima di metabolizzare il lutto una volta per tutte.

Antonio Casu